Anno: 2008
Distribuzione: BIM
Durata: 96′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Gran Bretagna
Regia: Steve Mc Queen
Hunger di Steve McQueen
Correva l’anno 2011, durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, quando si è avuto modo di apprezzare Shame, il secondo lungometraggio di Steve Mc Queen, le cui critiche, per altro positive, si affidavano ad un confronto con il precedente Hunger (visto, evidentemente, fuori dal confine patrio).
In genere, infatti, si riduceva quest’ultimo alla trama di un uomo privato della libertà, in quanto detenuto in prigione, al fine di presentare l’altro lavoro come esatto contrario, ovvero la storia di un individuo che nel mondo occidentale, per antonomasia consumistico, possiede ogni bene, ma si ritrova preda e perpetua vittima di se stesso, del proprio corpo e del sesso.
L’analisi di Hunger
Hunger merita un’analisi a sé, senza paragoni o deviazioni di altro genere.
Nell’esordire, il regista propone un angolo di inferno più sadiano che dantesco, alla maniera del Pier Paolo Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove albergano i Gironi del Sangue e della Merda, “materie” che miste ad urina e cibo avariato sono espletate ed impiegate dai carcerati, paradossalmente, per vivere: gli “impasti” servono, in genere, per sigillare messaggi cartacei da consegnare durante i colloqui in parlatorio, al mondo di là dalle sbarre.
La macchina da presa soprattutto attraverso i dettagli (sulle pareti si scorgono quasi opere d’arte come i cerchi concentrici perfetti, simili a quelli della vita di un albero o dei campi di orzo, “dipinti”, senza dubbio, con le feci), insiste e mette a fuoco, mediante una sua palese anticipazione, il vero fulcro della vicenda: l’individuazione di una forma di protesta che faccia capitolare il governo inglese, fino a quel momento, sordo di fronte ad ogni richiesta dei prigionieri.
Alcune dichiarazioni
«Nella mia testa c’è l’immagine di un bambino che rifiuta di mangiare. La madre gli dice che non può alzarsi da tavola finché non mangia. In quel momento, per quel bambino, in un mondo governato dai suoi genitori, rifiutarsi di mangiare è l’unico modo che ha per opporsi.»
La seguente dichiarazione di Steve McQueen sembra rievocare il concetto viscontiano di immagine come punto di partenza (Ossessione). Ingloba interamente la trama del film presentandone la cellula-madre: sottraendo, o meglio destrutturando i due eventi iniziali, posti in forma di prologo parallelo, si giunge al vero cuore pulsante incentrato sulla lenta agonia del personaggio principale Bobby Sands.
All’inizio, non a caso, si assiste alla scena in cui l’agente penitenziario Raymond Lohan pone in acqua le sue mani per lavarne via il sangue e rinfrescare le ferite alle nocche. La sua reiterazione indurrebbe, erroneamente, a ritenere l’ autore del gesto come protagonista della pellicola.
Il montaggio parallelo
Il meccanismo si ripete, in montaggio parallelo. Quando all’ingresso nel carcere di Long Kesh (Irlanda del Nord), soprannominato The Maze, la macchina da presa si ferma sul volto di un nuovo detenuto di nome Davey Gillen. La successiva svestizione di quest’ultimo davanti alle guardie in uniforme segna la differenza tra la categoria degli uomini liberi e quella dei simili nudi, privati della loro dignità.
All’epoca dei fatti del film, il 1981, i detenuti repubblicani stavano inscenando “la protesta della coperte” (Blanket Protest) e quella “dello sporco” (No – Wash o Dirty Protest).
Dalla mostrazione dei due punti di vista completamente opposti ne deriva un terzo: la serrata indagine sul rapporto dentro/fuori autorizza a concentrarsi, fino alla fine, soltanto sulla figura di Bobby Sands, un “soldato” dell’ IRA, interpretato dal magnifico Michael Fassbender.
Di Bobby Sands Steve McQueen decide di inquadrare la cruda verità della tragedia di un uomo che muore di inedia: come ultima ancora di salvezza, nella ferma speranza che qualcosa possa cambiare, insieme ad altri compagni, avvierà lo sciopero della fame.
I prigionieri
La decisione di rifiutare il cibo, presa in un eccesso d’ira collettiva, dopo la consegna ai detenuti degli abiti civili definiti “indumenti da pagliacci”, rappresenta l’immediata risoluzione di un’intuizione. Si tratta di una forma di lotta non-violenta, metodica ed ordinata. Esattamente conforme, per organizzazione, ai metodi rieducativi del carcere in cui, con sinistra puntualità, si verificano azioni punitive da parte degli agenti distribuiti in vari ambienti dell’edificio e dotati di ogni tipo di arma consentita per colpire (ça va sans dire, oltre alle mani).
I prigionieri non possono fare altro che “prepararsi” al macello. Tentando di difendersi, ma durante quei momenti di pura follia, l’automatismo sembra generare un’interminabile e quella sì, criminale coazione a ripetere.
Struggente la ripresa dal basso, come un Cristo mantegnano messo al contrario, del corpo agonizzante di Bobby Sands dopo esser stato torturato senza posa. Recuperando inoltre un tratto tipico del trucco e del costume da clown (alias la sua uniforme). Un primo piano dall’alto del volto straziato ed immobile evidenzia un rivolo di sangue all’angolo destro del labbro.
Ora sì che Bobby somiglia ad un pagliaccio per via di quella bocca rossa e deformata nelle dimensioni!
Le inquadrature
In una splendida inquadratura tagliata al centro da una parete bianca la massa (il meccanismo) ed il singolo (il barlume di coscienza) si scontrano. A sinistra i poliziotti, in assetto antisommossa, continuano a picchiare ogni prigioniero estratto a forza dalla cella. A destra, terminato forse il suo compito o incapace di continuare, un giovane agente piange disperato chiedendosi, senza parole, come e perché sia possibile la violazione completa di ogni diritto umano.
Tuttavia quelle amare lacrime potrebbero essere indotte dalla pietà. Un sentimento che, come ribadisce una voce femminile fuori campo, va controllato e represso. I detenuti, esperti dei meandri dell’animo umano, non esiterebbero, si avverte, a ricorrere a forme clamorose, plateali, di martirio per sensibilizzare l’opinione pubblica.
Bobby Sands ricomincia dal corpo e dalla valutazione, in termini quantitativi, del controllo che di esso ancora mantiene: dimagrire non equivale ad una forma di suicidio, bensì ad un’affermazione del proprio potere decisionale.
Tutto è stato pianificato nei minimi dettagli: chi perirà sul campo di battaglia per la libertà verrà rimpiazzato da altri “soldati”. Mangiare e bere, ossia soddisfare due dei bisogni primari dell’essere umano, si mutano, in carcere, in atti a sostegno al governo, giacché aumentano la resistenza del corpo a nuovi e violenti soprusi .
La prima reale spiegazione di ogni misura detentiva deriva dalla semplice “esistenza” del corpo in quanto imprigionabile. Sosteneva questo concetto anche Michel Foucault nel celebre saggio del 1975, Surveiller et punir: Naissance de la prison.
L’ultima parte di Hunger
L’ultima parte di Hunger è interamente incentrata sui giorni che l’ “eroe” Bobby trascorre nel reparto ospedaliero del carcere. Essendosi terribilmente deterioratesi le sue condizioni di salute.
Il ventre cavo, gli occhi spenti, le piaghe da decubito, i fiotti di sangue dalla bocca, le lenzuola delicate in cui avvolgere un corpo inerte e sempre più magro per lenire il dolore da contatto. I particolari esibiti con dovizia appartengono al piano narrativo, non a quello voyeuristico tout court, e l’insistenza si fa cifra stilistica.
Viene in mente quanto Primo Levi affermava a proposito dei suoi romanzi. Ovvero di non aver assunto come modelli di riferimento Petrarca o Goethe. Ma «il rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in laboratorio, e che deve essere chiaro e coinciso e concedere poco a quello che si chiama il “bello scrivere”».
Nella stessa ottica rientra il lunghissimo dialogo (un piano sequenza di 22′) tra Bobby ed il prete a cui egli comunica l’inizio dello sciopero della fame.
L’azione concreta si contrapporrà alle vuote parole di una predica colma di retorica sui concetti di peccato e di disamore per la vita.
«I have my belief » ribadisce Bobby. I loro due primi piani, lungi dal giudicare, “spiegano” il rovesciamento logico della baldanzosa sicurezza di chi indossa una divisa e parla a nome di Dio. Il dubbio serpeggia e sconvolge un soldato della fede. Mentre la chiarezza di chi decide di morire per vivere e sa, privo di alternative, di operare, in quella circostanza, nel migliore dei modi possibili, senza passi indietro, incrementa uno stato di tranquillità.
Liberatorio giunge il flashback finale e quindi ancora un’immagine. Bobby, in punto di morte, ricorda sé stesso da ragazzo. Quando durante un raduno di corsa campestre, affogò un puledro ferito, agendo, privo di ripensamenti, mentre tutti blateravano sul da farsi.
Per nitore, pulizia e franchezza formale, la pellicola regala agli occhi la speranza di strade esistenti e percorribili in direzione di un ottimo cinema.
Mariangela Imbrenda