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Conversation

‘Billy’ conversazione con Emilia Mazzacurati

Con 'Billy' Emilia Mazzacurati racconta la poesia di una giovinezza senza età. Del film abbiamo parlato con l'autrice

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emilia mazzacurati

Per il suo esordio alla regia Emilia Mazzacurati racconta la poesia di una giovinezza senza età. Di Billy abbiamo parlato con l’autrice del film.

Billy è distribuito da Parthénos. In streaming su Raiplay

emilia mazzacurati

L’esordio di Emilia Mazzacurati

A partire dal titolo, il tuo film, per caratteristiche narrative e formali, mi sembra un esordio poco italiano e invece molto vicino a certe produzioni indie.

Il mio non è stato un ragionamento programmato, ma piuttosto il frutto di una riflessione interiore, forse anche inconscia. Il nome del protagonista è una conseguenza della passione di questa mamma un po’ folle, fissata con i film western. Abbiamo pensato che il nome del figlio fosse diretta conseguenza del film, Billy The Kid, che ci siamo inventati per l’occasione, tappezzando di poster la camera da letto della donna, che ha chiamato suo figlio come un fuorilegge.

In effetti il film è immerso in un paesaggio popolato da figure che richiamano il genere in questione.

Il western è una mia grande passione, per cui mi piace definire Billy come un coming of age western. Comunque, per quanto riguarda il paesaggio, hai ragione: Billy ha la postura tipica di quel genere di film. C’è la frontiera segnata dal fiume, con il baracchino di Penelope che vi figura come confine ultimo. Subito dietro c’è il resto del mondo, sempre in movimento, come il treno che sfreccia alle sue spalle.

I personaggi

Al centro della storia c’è una famiglia disfunzionale molto simile a quelle raccontante da certo cinema americano. Al ritratto di famiglia conflittuale e logorroico, tipico del cinema italiano, tu ne anteponi uno in cui emozioni e conflitti implodono in un quadro fatto di non sense e straniamento.

Non è stato fatto in maniera intenzionale. Penso dipenda dal mio modo di essere e di rapportarmi con le cose: io interiorizzo e utilizzo l’ironia come arma di difesa. Così capita a Billy che tiene tutto per sé e poi, piano piano, lo esterna: al contrario della mamma, fin troppo esplicita e loquace. Dietro la finzione del film ci sono cose e sentimenti che mi appartengono.

Un temperamento, quello dei personaggi, che mi ha ricordato gli omologhi di Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Un altro film anomalo rispetto alle produzioni italiane.

Direi di sì, c’è qualcosa che richiama un certo mondo di colori, un quartiere, una visione presenti nei loro lungometraggi.

Penso soprattutto ai volti dei bambini, su cui tu, come loro, lasci trapelare un mondo interiore tutt’altro che spensierato, consapevoli come sono di una società che non dà speranze sul futuro. Parlo di una impasse esistenziale che appartiene tanto a te quanto ai fratelli D’Innocenzo.

Sì, infatti il viaggio da fermi che cercano di fare i miei personaggi è lo stesso su cui ho lavorato nella messa in scena, nel senso che sia i bambini che i ragazzi vivono immersi in colori, costumi e musiche appartenenti a epoche che loro stessi non hanno mai vissuto e che però in qualche modo fanno parte di loro, quasi per una sorta di osmosi.

Alcuni richiami

Nel film ho trovato una frase che secondo me è conseguenza di questa visione, del film, del paesaggio e delle figure che lo attraversano. Quando Billy menziona “il giorno ideale dei pesci con gli occhiali” riveli la tua predilezione per J.D. Salinger, parafrasando il titolo di uno dei suoi racconti più celebri, ovvero “Il giorno ideale dei pesci banana”. Come i suoi, anche i tuoi protagonisti sono più maturi degli adulti e in qualche modo si ritrovano a doversene fare carico.

Sì, è proprio così. Ti ringrazio, sei stato l’unico a riconoscere la citazione e per me è una grande soddisfazione. Di Salinger c’è la famiglia, i cui figli partecipavano al programma che ospitava i bambini eccezionali, che poi è un po’ quello che succede a Billy. Alla fine ciò che ci forma emerge, prima o poi, più o meno consapevolmente.

Di Salinger, nel tuo film ritroviamo intatta sia la dimensione letteraria che esistenziale. A testimonianza della natura poco italiana del tuo lungometraggio.

Credo che questa su Salinger sia una delle cose più belle che mi siano state dette e ti ringrazio. Salinger fa parte della mia formazione in maniera viscerale. I Nove racconti sono sul mio comodino da sempre, così come ci sono i Sillabari di Goffredo Parise, in cui la provincia italiana è abbastanza simile a quelle di altre parti del mondo. Nel film ho cercato di renderla con dei luoghi che fossero anche della memoria per ognuno di noi. Per dirti, un lavoro che ho fatto è stato quello sulle musiche. In molti mi hanno detto che gli sembrava di averle già sentite, di conoscerle, ed e stata una cosa fatta di proposito. Volevo accendere nello spettatore un déjà vu della sua memoria interna, che a un certo punto, attraverso l’ascolto, viene fuori.

Emilia Mazzacurati e Wes Anderson

In quella sorta di famiglia allargata, che comprende l’insieme dei personaggi presenti nella vita del protagonista, tutti risultano un po’ eccentrici e naïf in una maniera che a me ha ricordato molto il modello adottato da Wes Anderson in I Tenenbaum: démodé nell’anima, ma anche nel modo di vestire abiti di un’epoca diversa dalla loro.

Questo è stato il risultato dell’intenso lavoro fatto sia con gli attori che con i reparti: per esempio con i costumi nel rapporto tra questi e le varie epoche. Ogni personaggio ne ha una: Lena sembra venire fuori dagli anni novanta mentre Billy dagli ottanta.

Regina, ad esempio, è forse il personaggio più autobiografico di tutti. È una versione romanzata di mia nonna, da cui ho copiato i vestiti.

Wes Anderson è sicuramente un autore che amo molto e in cui mi riconosco nell’ossessività della geometria e delle distanze. Ho letto di recente un’intervista al suo direttore della fotografia che dice: “quando prepariamo una scena, mandiamo l’assistente a verificare con il metro che la macchina sia in mezzo alla stanza, perché sappiamo che prima di girare Wes ce lo chiede”. Questa ossessività quasi compulsiva la capisco bene, poi certo, ho cercato di renderla mia, quando si è trattato di realizzare il film.

Da Anderson hai preso anche la funzione assegnata a oggetti e accessori all’interno dell’ inquadratura. Oltre a creare l’estetica del film, questi contribuiscono anche a creare il clima della storia. Penso, per esempio, al collegamento emotivo tra i visi imbarazzati dei nonni di Lena e le eccentriche geometrie impresse nella carta da parati del salotto in cui sono seduti; oppure al vintage di televisori e registratori.

Sì, diciamo che se rimaniamo sul discorso dell’ossessività, io detesto vedere in scena qualcosa che non mi piace, tipo un cavo, un filo o una spina, però in realtà nel film questa precisione è importante perché narrativamente parlando questi personaggi sono chiamati a capire di essere fermi in un’epoca che non esiste più. Penso a Regina, con la sua televisione Brionvega o a Zippo, rimasto negli anni novanta, con il suo cellulare a tasti.

Un rapporto intimo con il tema

Ho trovato molto bello il modo in cui introduci uno dei temi forti del film che peraltro ti riguarda da vicino. Parlo della scena iniziale in cui il protagonista è costretto a fare i conti fin da piccolo con l’assenza della figura paterna.  Una mancanza che, in un modo o nell’altro, appartiene alla maggior parte dei personaggi del film. Penso che tutto questo sia la traduzione di un sentimento personale. Il tuo.

È esattamente così, nel senso che è un sentimento autobiografico nascosto in una storia di finzione: è tutto molto personale, filtrato dentro una storia che mi sono inventata, in cui la mancanza del padre è un sentimento destinato a tornare in maniera preponderante.

È un sentimento e anche un concetto rintracciabile anche in dettagli sfuggenti. In realtà è come se fossero un’eco all’interno del film.

Sì, me ne sono accorta tardi, nel senso che il nucleo da cui sono partita erano Billy e la madre, in cui c’era questa figura di padre assente. Alla fine però questo schema è venuto fuori in centomila modi diversi, e per esempio con i figli di Zippo. Il flashback iniziale, quello in cui vediamo scappare il padre di Billy, è un’immagine che ho avuto subito, senza però sapere dove mi avrebbe portato. C’è questa frase di Flannery O’Connor, che ogni tanto cito: lei dice che chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni. Ecco, mi sembra che incarni quello che racconta questo film.

Le immagini iniziali raccontano in maniera poetica la solitudine del protagonista. Cosi è il dolly sul giardino, con il bambino immobile e le altalene ferme perché non c’è nessuno che le possa spingere. Dello stesso tenore è la panoramica in cui misuri la distanza tra la roulotte di Billy, isolata in mezzo a un prato, e il comprensorio cittadino. Anche la carrellata con il protagonista, solo, al centro della strada, ripreso mentre passa in rassegna le famiglie della sua comunità rimandano alla medesima condizione esistenziale.

Billy impara a stare da solo. Se prima lo vive come un peso dell’esistenza, – e anche nel finale, sottolineando che la luna non è mai perfettamente piena, rimane comunque consapevole che niente è assoluto -, nel corso della storia trova il modo per poterlo vivere nel futuro. 

La scena finale

La scena finale, quella in cui si parla della luna è quanto mai sospesa. È vero che Billy prende finalmente in mano la propria vita, lasciandosi indietro il passato, – in qualche modo giubilato dai festeggiamenti della notte di capodanno in cui è collocata la sequenza -, ma lui e Lena sono comunque fermi, appoggiati alla macchina, in attesa che succeda qualcosa.

Sì, sono fermi però fra di a loro c’è un evento, che non rivelo, che andrà avanti comunque e indipendentemente da loro, come la natura solo sa fare.

Però l’allusione alla luna che non è mai del tutto piena ci dice che, come succede nelle nostre vite, comunque ci portiamo dietro una parte di ciò che siamo stati.

Esatto.

Le immagini sono puntuali nel registrare la tensione interna alla storia, derivante dalla dialettica tra stasi e movimento. La sintesi più evidente ci viene restituita dal campo lungo in cui vediamo Billy seduto nel chiosco di Penelope, dietro al quale sfreccia sempre un treno. Tutto il film è disseminato di indizi che portano nella stessa direzione, come il continuo passaggio di aerei, oppure la presenza della roulotte in cui Billy si rifugia che, in quanto oggetto adibito al traino, diventa il simbolo dell’incapacità del personaggio di emanciparsi dal suo passato. Non è un caso che il cambio di rotta sia annunciato dalla possibilità del ragazzo di avere per la prima volta una macchina tutta sua.

Sì, quest’ultima è una cosa che ho capito verso la fine, perché forse anche io avevo difficoltà a lasciare andare via Billy. Quando guardo coming of age come Stand by me, uno dei miei film preferiti, noto che la parte che tengo più stretta a me è quando i protagonisti sono all’inizio, perché una volta che il gruppo si divide (che in realtà rimane una delle mie parti preferite) mi dispiace doverli lasciare. Per quanto riguarda la parte visiva, in particolare nel finale, mi sono rifatta alle atmosfere di Edward Hopper. Cercando quei colori e quelle luci. C’è una stazione di benzina, il baracchino verde e le luci rosse. Per me la sua arte incarna la difficoltà di afferrare il momento. Quando guardo i suoi quadri vi ravviso sempre un’inquietudine e un’incertezza. C’e qualcosa oltre il quadro che non vediamo e che però incombe all’interno della scena. Per il mio film ho cercato di rifarmi anche a questo concetto.

Il protagonista del film di Emilia Mazzacurato

La carrellata iniziale in cui Billy cammina al centro della strada, salutando gli altri personaggi del film, oltre a esprimere la condizione esistenziale del protagonista ne esplica anche la sua funzione narrativa, risultando il punto di raccordo delle altre microstorie. È il suo costante rapporto con le vite degli altri a rendere coerente l’eterogeneità della struttura narrativa.

Sì, infatti quando mi chiedono di cosa parla il film rispondo che attraverso il percorso di formazione di Billy la storia racconta la crescita di una comunità e di un gruppo, di una coralità di personaggi in questo microcosmo del nord. Quindi è esattamente quello che dici tu, anche se io vedo Billy come un coming of age al contrario: non solo perché i piccoli ne sanno di più o quasi degli adulti, ma poiché di solito in questo genere di film si racconta la perdita dell’innocenza mentre in Billy si tratta di riacquistare fiducia nella vita. Quindi parliamo di un percorso inverso.

Billy è un film in cui il rumore della coscienza del protagonista e degli altri personaggi si riversa nelle immagini e sul sonoro

Il lavoro sulla musica ci ha impegnato molto. La colonna sonora ha avuto il compito di portare nel film un grande sentimento. Poi ci sono musiche diegetiche realizzate dallo stesso, bravissimo, compositore. Essendo la cosa meno materiale del mondo, la musica è quella che si avvicina di più alla nostra anima. A quest’ultima abbiamo affidato quello che hai definito il rumore della coscienza. In generale mi pare che la musica abbia colto delle cose che andavano dette e non si potevano pronunciare né a voce né visivamente. Dal punto di vista delle immagini ho fatto il ragionamento inverso a ciò che verrebbe più intuitivo, scegliendo una fotografia nitida per il passato, proprio in virtù della permanenza di quest’ultimo nella vita dei personaggi. Al contrario, per il presente sono state utilizzate lenti anamorfiche molto morbide, che magari si sarebbero pensate più adatte a dei flashback.

L’attrice feticcio

Nella parte di Lena ritroviamo Benedetta Gris, già protagonista del tuo corto. In questo senso è lei la tua attrice feticcio.

In realtà sì. Lei è un’amica storica e l’ho scelta come mio alter ego, all’inizio nel primo cortometraggio. Benedetta ha un’inquietudine e una inafferrabilità che mi sono serviti per rendere al meglio una sirena così aliena come lo è la sua Lena. Alla fine ha fatto il lavoro più lungo di tutti perché, essendo mia amica, ha iniziato a lavorare al personaggio già in fase di scrittura.

La sua è forse la figura più iconica del film. Nel suo sguardo c’è tutta l’inquietudine dell’età giovanile.

Sì, credo che lei e Billy abbiano lo stesso tipo di malessere: simile e opposto, due facce dello stesso disagio. Magari lui interiorizza tutto e fa fatica a rapportarsi con gli altri, mentre lei lo indirizza più verso l’esterno e invece magari avrebbe bisogno di capirlo meglio dentro di sé.

Il cinema di Emilia Mazzacurati

Parliamo degli altri. Chi sono i tuoi preferiti nel cinema?

Tra i film direi Pat Garrett & Billy The Kid, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, Il Laureato, America oggi e in generale tutti i lungometraggi di Robert Altman e dei fratelli Coen.

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Billy

  • Anno: 2023
  • Durata: 97'
  • Distribuzione: Parthénos
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Emilia Mazzacurati
  • Data di uscita: 01-June-2023

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