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È reale? di Gianfranco Pannone

Letture diverse

Viaggiar d’estate a zigzag tra saggi e romanzi provando a dare un senso alla vita

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letture diverse

Per me l’estate è prima d’ogni cosa tempo di letture. Aspetto i giorni caldi (fin troppo caldi quest’anno!) di luglio per spingermi poi fino a settembre accavallando libri su libri, in modo un po’ convulso, non senza quel tanto di nevrosi tutta occidentale schiava del tempo che vola via. Provo inutilmente ad appartarmi, nel tentativo goffo e disperato di sfuggire a telefonate lavorative di mezza stagione (le più stressanti perché si è stanchi un po’ tutti, pronti a ringhiare alla prima sollecitazione), ai sinuosi richiami del sole e del mare (sono pur sempre una lucertola d’acqua e quando posso scappo verso i lidi che frequento fin da ragazzo), alle incombenze famigliari (che sembrano affastellarsi, chissà perché poi, proprio nei mesi più caldi), per metter mano alla pila di libri che mi aspetta da mesi. Libri d’ogni tipo, dagli amati saggi storici e antropologici ai romanzi di recente pubblicazione, dalle graphic novel ai classici su cui tornare dopo decenni…, che è difficile decidere da dove cominciar. In tutti i casi, fedele al mio rito estivo, limito il numero di film da vedere, dimentico la tv e tolgo la suoneria al cellulare, giorni di lavoro compresi.

Ora vi chiederete perché scrivo di libri in questa rubrica che si occupa di “cinema del reale”. E una risposta chiara e netta ce l’ho: fermo restando che non amo lo specifico filmico, perché credo che leggere pulisca i nostri cervelli pieni zeppi di scorie raccolte lungo l’anno, rendendoci così meno passivi quali spesso siamo da spettatori.

Cominciamo. In questi primi scorci di luglio ho fatto la mia prima full immersion tornando all’ammiratissimo Ermanno Rea, sempre in bilico tra saggio e romanzo. É molto vicino a un pamphlet il suo La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli), scritto una decina di anni fa; si tratta di un resoconto implacabile e veritiero su noi italiani degli ultimi cinque secoli, quelli che partono dalla Controriforma nei primi del 500, risposta netta e violenta a Martin Lutero, e che ancora oggi “obbligano” le italiche genti a una sudditanza stupida e furbetta al tempo stesso, influenzando non poco le sorti politiche e antropologiche contemporanee (lo stiamo vedendo proprio in questi giorni di cagnara politica). É un libro che fa pensare quello di Rea, scritto da un intellettuale illuminista, non scevro da certi schemi ideologici (il mondo cattolico è molto più complesso di quanto lui stesso non lo rappresenti), ricco, però, di spunti, provocazioni, riflessioni anche pessimiste e per questo intelligenti che fanno capire tante cose dell’amatodiato Paese cui sono così (rabbiosamente) legato. L’ho letto avidamente questo ragionare anche doloroso di Rea sulle responsabilità etiche e civili degli italiani. E a dirla tutta l’ho bevuto tutto d’un fiato anche perché in questo periodo della mia vita ho sentito un gran bisogno di tornare a Cesare Pavese, le cui edizioni Oscar Mondadori comprate da ragazzo sono riemerse tra libri e libri, come a chiedermi “ti ricordi di noi?”. Sì, quel Pavese che a vent’anni mi immalinconiva (una dolce malinconia) con i suoi crepuscoli perlopiù estivi e che oggi mi arriva struggente, umano troppo umano. Riflettere sulla realtà, che non è solo quello che vediamo ma ciò che ci portiamo dentro, per me è una necessità. E rileggendo nei giorni scorsi La spiaggia e Feria d’agosto, forte di un amore rinnovato, la realtà mi arriva con i suoi limiti, perché la vita necessita di uno sguardo poetico, e chi più del grande scrittore piemontese sa trasferire al lettore questo sentire? Che belle le descrizioni leggere e crepuscolari di Pavese! Ti immerge nei suoi mondi, che siano i lidi della Liguria postguerra o le amate Langhe dell’infanzia e della giovinezza, come prendendoti per mano. E ti accorgi quanto sia piccola e labile l’umanità.

Da Feria d’agosto: “Una notte d’estate, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai.” Dolce, sottile e disarmante sensualità.

letture diverse

Ed eccomi, infine, alla lettura di questi giorni, una graphic novel curiosa e, a dirla tutta, anche un po’ irritante. Si intitola Keeping two (Oblomov Edizioni) e l’ha scritta e disegnata un americano, Jordan Crane. É il racconto di una lunga relazione di un uomo e una donna vista attraverso gli occhi di lui e poi di lei. La donna si assenta per andare a fare la spesa e tarda a tornare, fino a risvegliare nell’uomo pensieri nevrotici e assurdi che sanno finanche di morte. Entrando nella sua testa, vediamo a frammenti il passato della coppia, dove non mancano litigi e incomprensioni; ed ecco altri frammenti da un romanzo che lui sta leggendo e che si occupa di un’altra coppia attraverso il passaggio doloroso della perdita di un figlio ancora nel grembo della donna. E poi, trasferendoci al punto di vista di lei (torniamo alla coppia originale), tornata a casa e altrettanto preoccupata di non vedere il suo uomo uscito per cercarla, rivediamo infine noi stessi, fragili proprio come in un racconto di Pavese. Manca, però, la malinconica dolcezza dello scrittore; il presente e il passato che ci trasmette Crane mi arrivano acidi, forse anche a causa di un tratto realista che il nostro per giunta colora tutto d’un verde chiaro ben poco conciliante. E il microcosmo della coppia si fa più acre, come se vivessimo con i due protagonisti un sogno disturbato su cui incombono, stupide e crudeli, le irrequietezze della vita. Ben altra storia è seguire i dialoghi dei protagonisti de La spiaggia, un po’ stupidi e insensati come lo sono spesso quelli estivi, ma sottilmente dolorosi; laddove il dolore è nelle illusioni, nelle rinunce, nei rinvii, negli amori perduti, nei ricordi che non tornano, acri e dolci al tempo stesso.

Che cosa sono le culture con le loro diversità! Quanto Crane, figlio di un’America tutta chiusa nel proprio privato, vuol disturbarci in modo corrosivo e ben poco indulgente verso ogni forma di equilibrio, facendo in modo che ognuno di noi si immerga nelle paure e nevrosi dei nostri giorni, tanto Pavese, lo scrittore tormentato figlio dell’Italia violenta appena uscita dalla guerra, prova ad aggrapparsi a una quieta leggerezza che sa non esserci ma di cui sente un disperato bisogno. Perché la realtà è talmente violenta da implorare poesia, dunque amabili bugie necessarie per sopravvivere. E forse questa necessità nemmeno l’illuminista Ermanno Rea, che tutto vuol comprendere, riesce a coglierla nella sua sottigliezza, guardando alla sua Napoli e all’Italia intera come a un paradiso abitato da diavoli, e negando di fatto le incongruenze della vita, che pure ne rappresentano il sale.

Fatti due conti io sto con Pavese.

In copertina Feria D’Agosto Cesare Pavese

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