Hurts Like Hell: Il mondo del Muay Thai, la mini serie thailandese creata e diretta da Kittichai Wanprasert, è disponibile su Netflix.
Una docuserie dal forte impatto sociale che non rinuncia però alla bellezza visiva e narrativa.
Un viaggio che porta lo spettatore a conoscere una disciplina che nel paese del sud est asiatico è molto più di uno sport. Il Muay Thai in Thailandia, infatti, è tradizione, filosofia e soprattutto fonte di guadagno. È su questo ultimo aspetto, con i suoi pro e contro, che si concentra l’attenzione di Hurts Like Hell: una serie avvincente, affascinante e originale.
La trama di Hurts like Hell
Tratto da eventi realmente accaduti, il serial racconta i retroscena e le verità nascoste della vita intorno al mondo del Muay Thai, disciplina considerata patrimonio nazionale, dove il dolore non si manifesta solo sul corpo, ma anche nell’animo dei lottatori. Questi ultimi pagano il prezzo dello sport anche in traumi psicologici profondi.
L’origine della disciplina
Il Muay Thai è un’arte marziale riconosciuta dal Comitato Internazionale Olimpico nel 2016. La sua storia, però, è millenaria e ha un valore che va ben oltre lo sport.
Nella Thailandia antica l’abilità nell’arte del combattimento divenne sempre più importante e il ruolo del muay thai (o, come viene chiamata oggi, thai boxe) era fondamentale.
Con il passare dei secoli la tribù divenne popolo e il proprio leader Re. Quest’ultimo doveva possedere qualità come la forza fisica, la forza di volontà, la conoscenza delle arti marziali e delle tecniche di difesa. Ma doveva avere soprattutto l’abilità di unire la popolazione e allenare gli uomini con i metodi di combattimento, l’utilizzo delle armi e soprattutto della thai boxe.
Un eroe nazionale
Attraverso questa nobile e antichissima disciplina, la Thailandia ha costruito il mito di alcuni personaggi, come Nai Khanom Tom. La leggenda narra che nel XVIII secolo i soldati birmani imprigionarono un gruppo di uomini thailandesi, in gran parte lottatori, tra i quali Nai Khanom Tom.
Il Re della Birmania organizzò una festa in onore di Buddha, durante la quale vennero organizzati degli incontri. Nai Khanom Tom riuscì a sconfiggere il suo avversario birmano, ma l’arbitro annullò tutto.
Successivamente, il guerriero thailandese si impose contro dieci lottatori birmani, senza alcun riposo tra un incontro e l’altro. Il Re rimase incantato dalla straordinaria abilità del guerriero e decise di concedere la libertà a lui e a tutti i suoi compagni. Da allora, ogni anno in Thailandia il 17 marzo si festeggia la giornata nazionale della Muay Thai in ricordo dell’eroe nazionale.
Questo piccolo accenno storico ci fa comprendere che la thai boxe non è solo sport. E la serie Hurts Like Hell utilizza la metafora del ring per trattare, in maniera accattivante e avvincente, temi atavici della lotta per la sopravvivenza.
Tra documentario e finzione
La serie, prodotta da Pattana Junjareonsuk e disponibile su Netflix dal 13 Luglio, è composta da quattro episodi della durata di circa 50 minuti ciascuno. La loro confezione è davvero affascinante e l’autore trova un perfetto equilibro tra documentario e finzione.
Hurts Lke Hell ha un impianto documentaristico, con interviste a personaggi reali riconducibili al mondo del Muay Thai, come allenatori, lottatori e campioni olimpici. A queste vengono alternate storie di finzione basate su fatti realmente accaduti.
È una formula sempre più utilizzata negli ultimi anni dalla televisione e dalle piattaforme streaming. Ma spesso il risultato è deludente, con i due distinti registri che non riescono a trovare un punto d’incontro. In Hurts Like Hell, fortunatamente, le cose vanno diversamente.
Per la serie thailandese, anzi, la mescolanza tra i due diversi linguaggi diventa il suo punto di forza e permette alla storia di svilupparsi su innumerevoli piani, moltiplicando i punti di vista. La vicenda, dunque, viene non solo documentata, ma anche rappresentata, acquisendo in ogni episodio un nuovo valore.
Da storia alla Macro Storia
Nel corso di circa quattro ore di visione, lo spettatore è catturato da una storia che si trasforma in Macro – Storia e il mondo della boxe thailandese diventa metafora di vita.
Il Muay Thai non è solo tradizione e cultura, è anche una fonte di guadagno per molte persone, sostentamento economico per intere famiglie che vivono ai margini della società.
“Il gioco d’azzardo è il cuore pulsante dell’industria del Muay Thai”.
Con queste parole esordisce uno dei tanti intervistati e il gioco d’azzardo è il tema principale del primo episodio. La serie inizia, infatti, con un piccolo scommettitore che si oppone al potere e alla prepotenza di un grande guru della boxe. Gli incontri tra i lottatori sono sempre in primo piano, ma emerge un sostrato di riscatto e rivolta contro il potere di una criminalità pericolosa e prepotente. La medesima vicenda viene rappresentata anche nel secondo episodio, ma cambia il punto di vista. Questa volta il protagonista è un arbitro corrotto che ha distrutto la propria famiglia perché travolto dal vortice delle scommesse clandestine.
I baby lottatori
Il terzo e quarto episodio di Hurts Like Hell, invece, sono dedicati al fenomeno dei baby lottatori, tema che nei precedenti episodi viene solo accennato. Sono questi due, molto probabilmente, gli episodi più potenti della serie, in cui è molto forte la matrice sociale. L’autore e il regista, però, non rinunciando ad utilizzare espedienti spiccatamente cinematografici, sottolineano l’aspetto tragico della vicenda.
In Thailandia la stragrande maggioranza dei lottatori proviene da un’estrema povertà e decide di salire sul ring mossa soprattutto dal desiderio di riscatto sociale. Il primo incontro avviene molto presto, quando i giovani lottatori non sono altro che dei bambini. Il rischio della lotta, però, è molto alto e non sono rari gli incontri che terminano in tragedia, come viene rappresentato in Hurts Like Hell.
La morte di un ragazzo, poco più che bambino, è un espediente utilizzato per creare pathos, ma in questo caso l’attenzione è posta non tanto sulla morte; piuttosto sul pentimento dell’altro lottatore sopravvissuto. Senza mai accantonare l’utilizzo delle interviste in stile documentaristico, la serie entra anche nel poetico e nel personale, proiettando in evocative immagini i rimorsi e i tormenti di un ragazzo che saliva sul ring solo per guadagnare un po’ di denaro e che finisce poi per uccidere un suo coetaneo.
Hurts Lke Hell La potenza della regia e della colonna sonora
La morte di questo giovane lottatore e la descrizione di una povertà estrema, in cui le donne vengono stuprate da uomini alcolizzati, sono solo alcuni degli spunti sociali della serie che non rinuncia mai alla bellezza estetica. La regia è tipicamente cinematografica e una bellissima colonna sonora, curata dal compositore Bill Hemstapat, enfatizza con gusto i momenti più drammatici. Proprio l’uso della musica e la scelta di raccontare la stessa storia da più punti di vista, fanno di Hurts Like Hell un’opera che guarda al cinema d’essai.
Molti i riferimenti visivi e i punti di contatto con la celebre trilogia dei colori di Krizysztof Kieslowski.
Le esistenze dei protagonisti di Hurts Like Hell, come avveniva per il cinema del grande regista polacco, sembrano solo apparentemente slegate tra loro. Una visione più approfondita, invece, rivela come siano strettamente connesse e i loro destini legati.
Hurts Like Hell: Il mondo del Muay Thai è stata concepita come una serie conclusa, ma l’inaspettato successo potrebbe portare a realizzare una seconda stagione.
Hurts Like Hell | Official Trailer | Netflix
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