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Il cinema di Baz Luhrmann

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Baz Luhrmann

È di prossima uscita nelle sale italiane l’ultima fatica cinematografica di Baz Luhrmann: Elvis.

Si tratta di un biopic che ripercorre la vita del leggendario re del rock and roll morto a soli 42 anni, interpretato da Austin Butler. Nel cast figura anche Tom Hanks nei panni del suo manager Tom Parker.

Il sesto lungometraggio del regista australiano, presentato all’ultimo Festival di Cannes, ci dà l’occasione di ripercorrerne brevemente la carriera.

Gli esordi di Baz Luhrmann in teatro

È il teatro il primo amore di Baz Luhrmann. Qui, infatti, l’autore australiano, dopo una breve esperienza come attore cinematografico, dà le prime dimostrazioni del suo talento artistico curando l’allestimento di opere importanti, tra cui una notevole rivisitazione de La Bohème di Puccini ambientata negli anni ’50 del Novecento.

È però con la messinscena assieme alla Six Years Old Company della pièce Strictly Ballroom che Luhrmann giunge ad un punto di svolta nella sua carriera.

Il clamoroso successo nei teatri australiani dell’opera da lui stesso ideata costituisce, infatti, un vero e proprio trait d’union tra l’autore ed il mondo della settima arte: di Strictly Ballroom viene elaborata una versione cinematografica dal titolo italiano Ballroom – Gara di ballo, di cui lo stesso Luhrmann è regista.

Il passaggio di Baz Luhrmann al cinema: la trilogia del sipario rosso

Il salto dal palcoscenico al set è cosa fatta: il film esce nelle sale cinematografiche nel 1992 e rappresenta un’opera prima che già vede delinearsi alcuni di quegli elementi propri dell’estetica luhrmanniana: il gusto per il grottesco che ritroveremo in Moulin Rouge! e, solo in parte, in Australia, l’uso dinamico della mdp, la centralità dell’elemento coreografico e musicale, e soprattutto la sgargianza dei costumi e dei colori che già dichiara, seppur in nuce, il gusto di Baz Luhrmann per l’eccesso visivo e per un certo antinaturalismo. Il tutto sullo sfondo di una sofferta storia d’amore che sarà una sorta di leit motiv, sempre più declinato al melò, della sua successiva cinematografia.

Ballroom – Gara di ballo è la storia di Scott (Paul Mercurio) e Fran (Tara Morice), due giovani che, andando contro tutto e tutti, decidono di partecipare ad un’importante gara di ballo a modo loro, infrangendo regole e tabù.

La pellicola ottiene un buon riscontro di pubblico e critica, e fa guadagnare all’autore australiano la possibilità di girare quel secondo film che gli darà il vero successo internazionale, lanciando definitivamente Leonardo Di Caprio nell’orbita del divismo hollywoodiano: si tratta di Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996).

È la trasposizione ai giorni nostri del capolavoro shakespeariano.

In una fantomatica Verona Beach, i due innamorati (Di Caprio nei panni di Romeo e Claire Danes in quelli di Giulietta), parlando la lingua del testo originale, si muovono sullo sfondo di periferie decadenti, gang rivali e crocefissi al neon.

Siamo all’esaltazione straniante del suo stile visionario, della declinazione kitsch dell’elemento visivo che, unendo cultura pop e teatro elisabettiano, fa assurgere il film a vero e proprio manifesto di quel cinema postmoderno di cui Luhrmann verrà incoronato nuovo re.

 

Con la sua terza pellicola – Moulin Rouge! (2001) – il regista australiano propone una rilettura sui generis del genere musical.

Ci troviamo nella Parigi dell’epoca bohemienne. Sullo sfondo del leggendario locale che dà il nome al film e dell’allestimento di uno spettacolo di cui è protagonista la bella e malata Satine (Nicole Kidman), si dipana la contrastata storia d’amore tra quest’ultima e il giovane scrittore Christian (Ewan McGregor).

Baz Luhrmann mette in scena un racconto che sembra trarre ispirazione sia dall’opera pucciniana La bohème che da La traviata di Giuseppe Verdi.

Tutti quegli elementi fondanti la cifra stilistica del suo cinema qui paiono incontrarsi ed esaltarsi al massimo: Moulin Rouge! è un delirio visionario e barocco.

Lo spettatore viene catapultato in un caleidoscopico gioco di coreografie, suoni e immagini esaltati dall’uso concitato della mdp e soprattutto dal montaggio serratissimo (stilemi essenziali nel cinema di Luhrmann).

L’impatto visivo, tra colori saturi, scenografie sfarzose e costumi sontuosi, lascia senza fiato. È un tourbillon contaminato; un folle, eccessivo e grottesco “spettacolo spettacolare” condotto ad un ritmo forsennato che rallenta solo per far spazio al melodramma.

La colonna sonora – composta da brani moderni che, spaziando da Elton John a David Bowie, arrivano, tra gli altri, ai Nirvana e agli U2 – vuol rappresentare l’anello di congiunzione tra passato e presente, e contribuisce così all’attualizzazione di un racconto che rivela l’aspirazione del cineasta ad aggiornare l’universo musical.

Moulin Rouge! riscuote un notevole successo di pubblico e di critica. La pellicola si aggiudica molteplici premi, tra cui gli Oscar per la migliore scenografia e per i migliori costumi.

Da Australia a Il grande Gatsby

Con Moulin Rouge! Luhrmann conclude la c.d. “trilogia del sipario rosso”; una trilogia che – come il nome stesso suggerisce – vuol idealmente riunire i suoi primi tre film sotto il segno dell’ascendenza teatrale. Non è un caso perciò che l’opera cinematografica successiva – Australia (2008) – rappresenti una vera e propria cesura rispetto al passato: dall’ideale spazio conchiuso di un teatro, Luhrmann passa agli spazi aperti e sconfinati della sua terra d’origine impiantandovi ancora una volta una travagliata storia d’amore: è quella che, sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, coinvolge la giovane aristocratica inglese Sarah Ashley (ancora una volta interpretata da Nicole Kidman) e il mandriano Drover (Hugh Jackman).

In ossequio alla sua ispirazione postmoderna, Baz Luhrmann realizza un kolossal dai toni epici che riecheggia un classico del cinema del passato come Via col vento.

Pur dando risalto agli elementi visivi attraverso una fotografia dai colori saturi e innaturali, l’autore si mostra più pacato rispetto all’estetica kitsch dei suoi film precedenti preferendo concentrarsi su di un racconto narrativamente complesso: oltre ai soliti villain che ostacolano i due protagonisti, Luhrmann mette in scena elementi di cultura indigena ed episodi del conflitto mondiale. E soprattutto denuncia lo scandalo dei bambini aborigeni sottratti arbitrariamente alle loro famiglie: sono i bambini delle cosiddette “generazioni rubate”.

Il risultato è artisticamente lontano dai film precedenti. Nell’intento di omaggiare la sua Australia, Luhrmann eccede di generosità e finisce per perdersi nelle molteplici sottotrame di un racconto che non riesce a tenere in equilibrio.

 

È forse per questo che con il suo film successivo – Il grande Gatsby (2013) – il regista torna decisamente a puntare sulle sue qualità visionarie e sulla sontuosità di un impianto visivo baroccheggiante, unite all’uso straniante della colonna sonora: non è più il jazz del romanzo di Francis Scott Fitzgerald ad accompagnare la drammatica storia d’amore tra Jay Gatsby (Leonardo Di Caprio) e Daisy Buchanan (Carey Mulligan), ma delle modernissime musiche che vanno dall’hip hop ai brani interpretati da Lana Del Rey e Beyoncé.

Anche qui, come in Moulin Rouge!, l’intento è quello di attualizzare un racconto che visivamente recupera il gusto per l’eccesso e lo sfarzo anche grazie al ricorso alla tecnica 3D: palazzi che sembrano castelli, feste da ballo pirotecniche, auto di lusso. È un trionfo di scene e costumi dai colori saturi che, ripresi da movimenti di macchina virtuosi e catturati dai toni innaturali della fotografia, cerca di offrire un credibile contraltare alla malinconica solitudine del protagonista.

Il successo al botteghino è assicurato, ed il film è premiato con gli Oscar per la miglior scenografia e per i migliori costumi. Eppure qualcosa lascia perplessi: è come se nel dare eccessivo risalto agli elementi esteriori rappresentati dalle feste e dall’esibizione del lusso, Luhrmann abbia finito per non cogliere appieno lo spirito più autentico e profondo del romanzo originale, così restando sul piano di una narrazione al contempo vertiginosa, ma pur sempre irrisolta.

Ora il regista australiano è di nuovo nelle sale con il suo ultimo lavoro, Elvis. I 12 minuti di applausi ricevuti al Festival di Cannes 2022 ed il ritorno ad un film imperniato sulla musica – proprio come Moulin Rouge! – lasciano ben sperare. Per Baz Luhrmann potrebbero aprirsi le porte di un nuovo, clamoroso successo

 

 

 

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