Presentato in anteprima mondiale nella sezione Panorama dell’ultimo festival di Berlino Una Femmina di Francesco Costabile racconta la ‘ndrangheta dall’interno con un punto di vista femminile. Del suo esordio cinematografico abbiamo parlato con il regista del film Francesco Costabile.
Distribuisce Medusa Film

Una femmina di Francesco Costabile
Come spesso capita nel cinema d’autore le sequenze introduttive costruiscono le premesse del suo sviluppo semantico e figurativo. Il tuo mi sembra un inizio coraggioso oltre che riuscito. Non era facile decidere di sfocare parte del quadro per dirci che il film racconta di una verità nascosta e di qualcuno costretto a celare la propria persona.
Dici bene. Volevo immergere lo spettatore nelle viscere di questo film e in quelle della protagonista. Di fatto nella prima parte visualizziamo la memoria traumatizzata di una bambina, e poi di una ragazza, che ha sperimentato sulla pelle la violenza della morte della propria madre. Per farlo abbiamo adottato una serie di lenti e filtri capaci di mettere a fuoco una porzione di immagine lasciando il resto sfocato, proprio per enfatizzare la dimensione quasi onirica di quel ricordo. Sei poi tu a farmi pensare che la bambina nascosta dentro l’armadio è un’immagine in grado di racchiudere il tema del film; quello di essere spinti a nascondersi per l’incapacità di affrontare la realtà e le sue conseguenze.
Le sequenze di cui si parla acquistano ancor più significato se messe in rapporto a quelle conclusive nelle quali l’emancipazione di Rosa, dal contesto famigliare, è visualizzato da una composizione di segno opposto, con la protagonista che esce allo scoperto togliendosi il velo del lutto e mostrando senza paura il proprio volto.
Quando faccio un film tendo a non razionalizzare troppo. Una femmina l’ho fatto con la pancia. Avendo poco tempo per le riprese, mi sono affidato al mio istinto facendo una lettura anche profonda e interiore del mio vissuto. Comunque sì, il film in effetti è circolare. Rosa torna solo alla fine in quella stanza, davanti all’armadio in cui si specchia, indossando il velo nero e con in testa il piano che la porterà a lasciare per sempre quella casa per non fare la stessa fine di sua madre. Quest’ultima vi torna per morire, Rosa per liberarsi e soprattutto per completare la sua vendetta. Adesso ha il coraggio di dire la verità; di umiliare sua nonna che in qualche modo è la principale responsabile e comunque complice della morte di sua madre. Quindi è vero, c’è questa struttura circolare che in generale amo molto in tutti i film: qui è giustificata dal fatto che gli abusi e le violenze di cui Cetta e Rosa sono vittime derivano da dinamiche interne alle famiglie della ‘ndrangheta, una sorta di coazione a ripetere che caratterizza tutte le femmine ribelli di Abbate.

Il dramma di Rosa in Una femmina di Francesco Costabile
Dal punto di vista narrativo il film racconta di come Rosa, a differenza della madre, riesca a proteggere la figlia trovando la forza per rompere il legame che la lega al contesto famigliare.
Infatti lei rimedia alla promessa mancata nello stesso letto in cui la madre le aveva detto che l’avrebbe portata via. Il suo gesto rappresenta un barlume di luce e di speranza per una reale emancipazione e autodeterminazione dell’universo femminile dal contesto culturale e sociale di cui parliamo.
Il fatto di voler portare lo spettatore dentro il dramma di Rosa è testimoniato anche dalla maniera in cui decidi di girarne il ricordo, costruendo la scena come fosse un film horror, con gli specchi della casa pronti a rivelarne la natura fantasmatica del contesto in cui si svolge la violenza.
Assolutamente. Ho lavorato molto sui generi cinematografici. Il film è una composizione equilibrata tra molti di essi. C’è l’horror psicologico, il thriller, il melodramma; c’è anche qualche linea di western. Volevo affrancarmi dal realismo o meglio dall’effetto naturalistico, spesso utilizzato in questi film, per scavare in profondità nell’animo umano e nelle sue zone più inconsce. Perciò ho agito sugli archetipi e dunque sulla famiglia che è la più grande di queste strutture, appunto, archetipiche. E poi sui generi che degli archetipi fanno largo uso. Così facendo mi sono affrancato da un punto di vista totalmente aderente alla realtà. Anche perché ci sono tanti film di miei colleghi bravissimi che hanno adottato un taglio di quel tipo: un esempio su tutti, Anime Nere. Io volevo andare in un’altra direzione, anche rischiando perché in Italia i critici quando ci si allontana da questo binario storcono il naso. È stata una scelta consapevole di cui sono fiero.
Un messaggio forte
Una femmina parte dalla realtà per poi trasfigurala. Nella dialettica tra la componente onirica e quella fattuale alla fine è la seconda a prevalere perché, per interrompere la maledizione, Rosa è costretta ad affrontare la realtà agendo all’interno di essa. È un messaggio fortissimo se contestualizzato all’inazione professata dalla cultura mafiosa a cui la storia si riferisce.
La trasfigurazione e i suoi archetipici si basano comunque su un’aderenza alla realtà molto forte. Se ho azzardato sul piano estetico e linguistico è solo perché sapevo di poter avere dei forti agganci con la realtà.
L’inizio ne è un esempio perché la telefonata di nonna Berta riprende l’intercettazione della madre di Maria Concetta Cacciola, il personaggio che ha ispirato Cetta, la mamma di Rosa. Si tratta di una scena con un punto di vista iperrealista e insieme astratto destinato a diventare il binario su cui viaggia il film. L’aderenza alla realtà è data anche dalla scelta dell’attrice protagonista perché Lina Siciliano era alla sua prima esperienza cinematografica: l’ho incontrata in una casa famiglia nella quale era giunta dopo aver vissuto una giovinezza particolarmente difficile. Il suo vissuto ha restituito al film la forza di queste donne. Il mio rispetto verso di loro si è tramutato in una lunga ricerca sul campo e, come dicevi tu, nell’equilibrio tra realtà e fantasia. Poi vorrei dirti che se un film emoziona vuol dire che è riuscito ad agire sulla realtà. Anche la nostra parte inconscia fa parte di essa, non dimentichiamocelo. Una femmina va letto non con la testa, ma con la pancia. Invito sempre lo spettatore a vivere questa esperienza nella sala cinematografica con la parte più profonda e istintiva.

La ribellione in Una femmina di Francesco Costabile
Oltretutto Una femmina lavora su uno dei cardini del sodalizio ndranghetista rovesciandolo attraverso il paradosso di Rosa il cui silenzio, infatti, non è un segno di omertà e sottomissione come vorrebbe la vulgata mafiosa, ma al contrario il principio della sua ribellione.
Lei agisce. Anche questa è una sottolineatura molto interessante ed è un aspetto che ho elaborato dopo le riprese. In effetti Rosa agisce attraverso due forze irrazionali: La prima appartiene al suo inconscio. Quando lei vi si collega – nella sequenza dell’incidente con la prostituita – la sua memoria traumatica inizia a risvegliarsi ed è lì che comincia a pianificare la sua vendetta di sangue. La seconda è l’amore, quella che la spinge ad andare via dalla propria casa. Rosa è un eroina che non parla ma agisce – come giustamente dici – attraverso due forze straordinarie, probabilmente le più potenti.
Sempre nell’ottica di questa dialettica tra realtà e sogno va visto il ricordo di Rosa in cui vediamo la madre seduta sul letto vestita da uomo. Anche qui è un’altra trasfigurazione a dirci qualcosa in più del personaggio di Cetta.
Nella scena in cui Cetta torna a casa, con il costumista Luca Costigliolo, volevamo restituire l’immagine di una donna forte, di una persona che aveva avuto coraggio. Abbiamo lavorato in quella direzione anche perché l’attrice, Francesca Ritrovato, è una ragazza estremamente dolce e delicata quindi abbiamo cercato in qualche modo di renderla un po’ più ruvida, di sporcarla.
Lo spazio
Quello che racconti è un universo chiuso, una dimensione aliena al resto del mondo. Quanto appare sullo schermo è tanto più circoscritto e costrittivo quanto più libero e illimitato è lo spazio destinato a rimanere fuori campo. Dal punto di vista visivo il parametro con cui rendi questo tipo di clausura è dato da tutte le sequenze in cui, senza specificare la topografia ed esasperando la dimensione claustrofobica, fai camminare Rosa dentro i vicoli del paese. Per tutto il film è come se la ragazza fosse imprigionata dentro quelle stradine di cui non vediamo mai la fine. Solo nella scena finale abbiamo l’opportunità di percepirne l’uscita attraverso lo spiraglio oltre al quale c’è il mondo altro, quello a cui Rosa affida il proprio destino e quello di sua figlia.
Bravo, le mie scelte sono andate proprio in quella direzione. Ho scelto di girare a Verbicaro, in provincia di Cosenza, nel Pollino, proprio perché ha una struttura visiva claustrofobica e labirintica in cui è facile perdersi. E poi per i toni cromatici, tutti orientati sui neri e sui grigi, oltreché per la struttura a scale, capace di rendere il paesaggio astratto come le opere di Escher. Caratteristiche che, come dici tu, andavano a costruire una materializzazione di quello che è il tema del film, cioè il non poter uscire da una determinata gabbia, salvo poi trovare un’uscita con quel punto di luce finale. Si fa tanta retorica sull’assenza delle istituzioni. È vero che storicamente la Calabria è stata lasciata a se stessa, ma il governo e le forze dell’ordine sono l’unica speranza per uscire da quel mondo. Lo dico perché spesso da parte di registi e intellettuali si banalizza nell’affermare l’assenza dello Stato. Non è sempre così. Ci sono una serie di magistrati e avvocati che hanno salvato la vita di tante donne. Quel messaggio finale lo devo a chi lavora per loro.
Una femmina: Francesco Costabile e David Lynch
Dicevi che il tuo è un film in cui è necessario entrare lasciando andare la mente. In questo senso alcuni passaggi di Una femmina mi hanno ricordato il cinema di David Lynch.
Eh beh, sì. A nove anni ho deciso di intraprendere questo mestiere dopo aver visto Twin Peaks. Per me è stata una folgorazione anche traumatica a causa della mia giovane età. Da quel momento in poi ho iniziato a sognare di fare quello che faceva lui e cioè, di costruire degli universi. Lynch me lo sono portato dietro sempre. Lo amo per la sua capacità di costruire film estremamente emotivi su una elaborazione inconscia della narrazione. Se ci penso, uno dei primi film visti in sala è Fuoco cammina con me.
Fuoco cammina con me era l’appunto che mi ero annottato e di cui stavo per chiederti. Era quello il riferimento per associare Lynch al tuo film, anche per la valenza del fuoco che usi in una delle scene più significative del film, quella in cui Rosa brucia il capannone dello zio, simbolo della natura malavitosa insita nella sua famiglia.
Se ci pensi bene Fuoco cammina con me è una storia di violenza domestica e di incesto. Lì l’oppressione familiare è molto evidente e il mio film richiama quel mondo, quella provincia: in Una Femmina abbiamo una donna abusata e malmenata, Rosa, che potrebbe essere la mia Laura Palmer calabrese, cosi come Leland Palmer potrebbe essere lo zio e Bob Ciccio. Sono rimandi anche inconsci che ho ritrovato montando il film. Ma nel film ci sono anche Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti, amori e maestri della mia formazione. Di Pasolini ho preso l’amore verso le facce e lo stare spesso vicino al volto dei miei attori.

E anche un po’ di Pasolini
Lina Siciliano è molto pasoliniana.
Assolutamente. Luchino invece lo rivedo in quella che è la tragedia greca che poi è la struttura del romanzo familiare. Forse anche nel finale, con il coro di donne che richiama anche un po’ l’opera. Sono tutte influenze inconsce perché mentre giravo non stavo pensando come e chi dovevo citare. Sono cose che ho rielaborato nel corso del montaggio. Quando si monta un film lo si impara a conoscere, ci si rende conto che molte cose, spesso le più belle, sono assolutamente inconscio e frutto dell’improvvisazione. Per esempio, mi sono accorto da poco che il film è pieno di usci e di soglie.
Che sono caratteristiche del cinema di Lynch, quelle con cui il regista sottolinea i passaggi da una dimensione all’altra.
Sì, come la porta di Natale da cui il cugino di Rosa non riesce a uscire.
Risolvi quella sequenza senza una vera spiegazione, ma lasciando che siano le sensazioni a lavorare dentro l’animo dello spettatore.
In realtà nel finale cerco di chiudere il filo narrativo di tutti i personaggi. Berta, per esempio, si libera del suo mostro; rivive il dramma di sua figlia e in qualche modo soffoca come a suo tempo è successo a Cetta, uccisa dall’acido muriatico. Rita, invece, è il personaggio al quale basta uno sguardo per incoraggiare la nipote a compiere il proprio destino abbandonando la casa, mentre Natale implode. Anche lui è un personaggio vittima di uno stereotipo al quale non riesce ad aderire: è un uomo immaturo che cerca in qualche modo di assumere il controllo, ma soprattutto di interpretare un ruolo che non gli è conforme e che alla fine crolla sotto i colpi di questo potere patriarcale e maschilista. Nel suo pianto disperato c’è la consapevolezza di essere anche lui responsabile nei confronti di sua cugina per quello che è diventata, ovvero una donna che si è sposata con il boss della famiglia avversaria.

Anime nere di Francesco Munzi e Una femmina di Francesco Costabile
Rispetto alle possibili fonti di ispirazione Anime nere rappresentava un inevitabile punto di riferimento. Rispetto al film di Munzi Una femmina ha la stessa ambientazioni, lo stesso contesto famigliare, la stessa faida fratricida. È come se fosse il contraltare femminile della medesima storia.
Anime nere è sicuramente il primo grande film sulla ‘ndrangheta. Senza dimenticare che dietro quell’opera c’è Gioacchino Criaco scrittore che amo per aver raccontato la mafia dall’interno. Gioacchino tra l’altro ha seguito anche il mio progetto e per questo lo ringrazio. Sono d’accordo, nel dire che Una femmina sia un contraltare del film di Munzi perché entrambi sono incentrati su famiglie che si logorano dall’interno ed è questa la cosa che più di tutti li lega. Mentre Anime nere lavora sul maschile, il mio lo fa al femminile, quindi sono due film che, a distanza di anni, viaggiano sullo stesso binario e secondo me si completano l’uno con l’altro pur avendo due approcci completamente diversi. Sono felice di poter essere al fianco di questa opera. In futuro spero che possano essere lette con lo stesso approccio critico e di lettura per quanto concerne il fenomeno della ‘drangheta.
Una femmina di Francesco Costabile nel panorama del cinema italiano
In una recente intervista rilasciata a Il fatto quotidiano Fabrizio Ferracane notava come il cinema italiano sia monopolizzato dalle solite facce. In questo senso Una Femmina mi pare dimostri il contrario, riuscendo a essere mainstream anche ricorrendo ad attori meno conosciuti dal grande pubblico.
Sono molto grande grato a Medusa, O’groove, a Tramp Film per avermi dato piena libertà dal punto di vista artistico sia nella scelta delle location che in quella delle facce perché sappiamo delle ingerenze da parte di produzioni e distribuzioni. Medusa ha avuto grande coraggio lasciandomi lavorare in questa direzione perché troppo spesso in Calabria vengono girati film con attori non calabresi o, ancora peggio, vengono ambientati in altre regioni. Al contrario l’aderenza – e qui parlo in termini pasoliniani – alla sonorità, alla lingua e direi anche alle facce e ai luoghi sono alla base di una restituzione reale, concreta ed emotiva di una storia e di un territorio. Per me era impossibile girare questo film fuori dalla Calabria con attori non calabresi per cui sono stato orgoglioso di lavorare con attori che avevano fatto pochissimo nel cinema, parlo di attori straordinari come Mario Russo, Vincenzo Di Rosa e anche con Anna Maria De Luca, attrice che ha lavorato tanto ma alla quale ho assegnato un ruolo che le restituisce tutta la sua potenza drammaturgica e attoriale. Lina Siciliano è stata, invece, una scoperta assoluta.

Altri parallelismi per Una femmina di Francesco Costabile
Allargando il discorso al cinema italiano mi pare di poter dire che soprattutto da parte dei registi più giovani c’è la voglia di ampliare le potenzialità del reale trasfigurandolo nella maniera in cui l’hai fatto tu e in cui lo hanno fatto opere come Piccolo Corpo di Laura Samani alle quali ti legano l’approccio ancestrale e archetipo, il realismo delle ambientazioni, l’utilizzo del dialetto e la scelta di lavorare con attori esordienti e non professionisti. Anche America Latina dei Fratelli D’Innocenzo compie lo stesso percorso di trasfigurazione sugli elementi del reale.
È una fortuna che questo accada. In Italia abbiamo spesso un approccio fiacco e impaurito, soprattutto per le opere prime, un’ossessione verso l’assoluta aderenza al reale che può diventare castrante. Viviamo il peso di una tradizione cinematografica, la cosiddetta stagione neorealistica, che ancora continua a condizionare e influenzare il cinema d’autore italiano.
Il problema è che lo stesso Neorealismo è stato mal interpretato. A parte i primi film di Rossellini, che hanno un’aderenza al fatto pressoché totale, la realtà è stata spesso trasfigurata dagli stessi protagonisti del Neorealismo. Prendiamo Visconti e La terra trema: è vero che ha utilizzato attori non professionisti e girato su set reali, ma in quel film c’è un lavoro di trasfigurazione enorme.
Il cinema italiano spesso fa fatica ad affrancarsi da questa visione interpretativa, che, ripeto, è frutto di una lettura critica approssimativa e superficiale. L’aderenza assoluta alla realtà è un miraggio, può rendere sterili, può appiattire tutte le complessità che contraddistinguono la nostra vita. Lo diceva Pasolini stesso quando diceva che la realtà è un linguaggio e che il cinema è la lingua scritta della realtà. Pasolini criticava l’uso del piano sequenza, reo di banalizzare la realtà in ossequio all’ossessione nei confronti del naturalismo cinematografico. I giovani autori devono avere coraggio perché i tempi sono cambiati. Il cinema ha tante forme, tanti linguaggi, bisogna avere il coraggio di trovare la propria forma e il proprio punto di vista sul mondo.