Olla, il film d’esordio di Ariane Labed in programmazione da Febbraio su MUBI, ci ricorda che alle volte il silenzio è l’urlo più forte di tutti.
Ventisei minuti di poesia, didascalica nel contenuto, scanzonata nella forma. Ingiustamente relegato alla categoria di MUBI “Donne dietro la cinepresa” (non perché non meriti un riconoscimento, quanto per la natura del riconoscimento stesso), Olla sembra far proprie le parole di Paul Preciado, che nel suo libro Sono un mostro che vi parla scrive :
“Organizzate un incontro per parlare delle donne in psicanalisi nel 2019, come se fossimo ancora nel 1917, come se questo particolare tipo di animale che in modo condiscendente e naturalizzato voi chiamate “donna” non avesse ancora acquisito pieno riconoscimento in quanto soggetto politico, come se fosse un appendice o una nota a piè pagina, una creatura strana ed esotica, a cui ogni tanto vi tocca pensare, in occasione di un convegno o di una tavola rotonda. Sarebbe stato più opportuno organizzare un incontro su “gli uomini bianchi e borghesi in psicoanalisi”, perché la maggior parte dei testi e delle pratiche psicoanalitiche si imperniano sul potere discorsivo e politico di questo tipo di animale”.
La trasposizione del discorso di Preciado in chiave cinematografica risulta immediata, non ha bisogno di parole chiave o suggerimenti all’orecchio. Tutto è così chiaro da risultare urticante, come urticante è l’atteggiamento misogino della componente maschile che abita questo film.
E l’architrave su cui tutto si sorregge “è pensato a partire dalla posizione della mascolinità patriarcale, dal corpo maschile eterosessuale inteso come corpo con un pene erettile, penetrante e eiaculante”, purtroppo dominante assoluta del nostro contemporaneo.
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In quest’ottica Olla racconta di un desiderio di emancipazione che non dovrebbe essere desiderato perché non necessario, perché inesistente. Una dichiarazione di guerra nei confronti della società patriarcale. La prima battaglia di una donna che, armata di una cinepresa e di un forte senso critico, cerca di abbattere uno stereotipo primitivo e fuori luogo.
“Donne dietro la cinepresa” è un biscottino per cani che Ariane Labed non sembra digerire e che non sembra nemmeno desiderosa di assaggiare. Ma la rivoluzione, come ci insegna la storia, non la si fa in pantofole sorseggiando un thè caldo, bensì sporcandosi le scarpe sul campo ed essendo disposti a perdere tutto anche quando non si ha nulla.
E così ripenso a personaggi come Witold Pilecky, l’unico uomo ad essersi volontariamente auto-internato ad Auschwitz per tentare la rivolta dall’interno, e questo suo agire silenzioso, quasi in sordina, offre un parallelismo con il lavoro altrettanto silenzioso di Ariane Labed, che con questo film d’esordio ci ricorda che alle volte il cinema è l’unico modo per mettere a nudo la realtà.
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