Voir è una serie di 6 episodi da 20 minuti ciascuno diretta e prodotta da David Fincher, disponibile su Netflix.
Il cinema è tecnica. È grammatica. È storia. E vita.
Il cinema è moltissime cose, tant’è che sono anni che teorici e studiosi non smettono di interrogarsi sul suo senso e sul suo significato, dando un’interpretazione diversa, e giusta, per ogni occasione.
Voir, che parte con un titolo bello ma già a forte rischio deja-vu (in francese, vedere), è la risposta che David Fincher -produttore e regista dell’operazione- dà alla domanda, utilizzando quella che dovrebbe essere la voce dei critici: in questo modo, inconsapevolmente o meno, ma problematicamente, fa scivolare il baricentro verso un’altra questione ugualmente affascinante ma fuorviante, ovvero perché ci affascina il cinema.
I sei episodi di Voir corrispondono a sei brevi video saggi, che oscillano tra analisi, ricordi e memorie; cosa che sulla carta si adatta perfettamente a quel titolo così evocativo, mentre allo spettatore si preannuncia una meditazione intorno all’atto del vedere, azione voyeuristica che sta alla base del cinematografo, ovvero la passività degli stimoli visivi.
Il problema, evidente come un elefante rosa nella stanza, è che Voir non si occupa di vedere o guardare, bensì di smontare pezzo per pezzo un film, in modalità arbitraria, a seconda della tematica scelta dalla voce narrante (Sasha Stone che ricorda l’estate in cui vide Jaws di Spielberg; Tony Zhou parla del suo cambiamento dopo Lady Vendetta di Park Chan-wook; Drew McWeeny racconta Lawrence d’Arabia; Glen Keane analizza l’animazione; Taylor Ramos mette a confronto cinema e tv; Walter Chaw vede l’amicizia interrazziale a partire da 48 ore), facendo sì che la voce che dovrebbe essere critica si concentri sugli ingranaggi del film dimenticando cosa significhi vedere quel film.
Dietro il presunto omaggio a Lo Squalo, ci sono solo nostalgia decontestualizzata e osservazioni generiche, le stesse che si ritrovano passo passo episodio dopo episodio. Pensieri superficiali e intercambiabili riassumibili con un Wow, io c’ero, pensiero legittimo ma che riconduce l’operazione a una mega confezione autoreferenziale, svuotata da ogni pretesto o profondità realmente critica o emotiva.
I lunghi monologhi autoconvalidati danno l’impressione che il film preso in analisi avrebbe potuto essere quello o un altro, tanto vaghe e pretestuose sono le dinamiche di cui si parla, ben lontane da profondità teoriche o tecniche o artistiche.
Il voyeurismo latente del cinema è importante e fondante perché riguarda sia il regista che lo spettatore, utente finale: il film è una storia raccontata ma anche un’emozione tenuta che si ribella alla passività intrinseca di ogni visione del e nel reale. Un film deve essere sia soggetto che oggetto della visione.
Conseguentemente, Voir scivola tristemente di lato alla sua tesi, senza un centro preciso né una chiara idea di quello che voglia raccontare, né tantomeno l’audience a cui è rivolto.
E se non se ne interessa lui, perché dovremmo farlo noi?