Satoshi Kon è senza ombra di dubbio uno dei registi d’animazione giapponese più influenti e interessanti di sempre. La sua ossessione e la sua visionarietà lo hanno accompagnato fino al 2010, anno in cui si è spento, vittima di un tumore al pancreas. Consapevole ormai della irreparabilità che affliggeva la sua condizione, Kon scrisse una lunga e commovente lettera d’addio affermando che il suo più grande rimpianto era quello di non aver portato a termine la realizzazione del suo ultimo film, Yumemiru Kikai. Non solo, chiese anche scusa ai propri collaboratori per aver imbastito un progetto talmente personale da non poter essere realizzato da nessun altro. Ad essere però onesti, tutto il cinema di Kon è stato così personale che nessun altro avrebbe mai potuto realizzarlo. Sinceramente è andata bene così, perché, con i suoi pochi film, ha lasciato un’impronta indelebile sulla cinematografia giapponese e mondiale.
0. Memories Episodio 1: Magnetic Rose

L’incipit narrativo di Magnetic rose, è molto simile a quello di Alien di Ridley Scott. Un’astronave capta un segnale di SOS nelle vicinanze e i due astronauti Heinz e Miguel sono costretti a scendere nella nave spaziale da cui proviene la richiesta di aiuto. All’interno della nave troveranno un mondo unico e allucinante, i ricordi di una donna misteriosa prenderanno vita e si fonderanno con la realtà e con i ricordi degli astronauti scivolando in un vortice visionario dal quale è quasi impossibile fare ritorno.
Memories è un film che si articola in tre episodi, tutti tratti dalla penna di Katsuhiro Ōtomo. Il primo di questi tre è Magnetic Rose, l’unico che porta la firma alla sceneggiatura differente da quella di Ōtomo. È il primo film scritto da Satoshi Kon, e nonostante la regia sia affidata alle sapienti mani di Koji Morimoto (Animatrix 2003), Magnetic Rose è il primo esempio della dirompente autorialità di Kon. Il mondo immaginario dei ricordi prende vita, diventa tangibile andandosi a fondere con la realtà. Il cortocircuito che si viene a creare mette a dura prova i nostri protagonisti parando davanti a loro un bivio: rimanere intrappolati nei ricordi o fuggire per tornare alla vita reale.
Magnetic Rose presenta già diversi temi che Kon approfondirà in futuro: la dipendenza reciproca del mondo della realtà da quello della fantasia e la crisi dell’essere umano di fronte a essa. Se ci fosse la possibilità di rimanere ancorati per sempre ai propri ricordi felici, rimuovendo quelli tristi e traumatici, cosa farebbe l’essere umano? Rimarrebbe incastrato nell’idilliaca illusione o proverebbe ad affrontare la dura realtà?
1. Perfect Blue

Mima Kirigoe è una idol. Canta assieme ad altre due ragazze e il trio è seguito da una miriade di fan. Mima però sogna di fare l’attrice decidendo così di lasciare il mondo della musica. Questa decisione metterà alle strette la ragazza con l’arrivo di pesanti minacce e accuse di tradimento. Inoltre, Mima scopre un sito internet chiamato Mima’s Room in cui vengono descritte nel dettaglio le sue giornate. Per colpa delle paranoie provocate dalla situazione e dalle pressanti circostanze dovute ad un mondo tanto complesso quanto marcio come quello del cinema, Mima sfocerà in un periodo di forte instabilità, provocandole delle visioni che piano piano diventeranno indistinguibili dalla realtà.
Con Perfect Blue (1997) Satoshi Kon esordisce alla regia, e lo fa con un capolavoro. Considerato da molti come uno dei film d’animazione giapponese migliori degli ultimi decenni, la pellicola è una critica spietata al mondo giapponese. Il mondo delle idol e quello del cinema sono nient’altro che delle spietate industrie volte a fare soldi a discapito della salute fisica e mentale di chi ci lavora. Kon si interessa molto alle giovani generazioni, dipingendo dei personaggi adolescenti che fanno fatica a vivere tranquillamente la loro vita. L’eccessiva aspettativa che la società giapponese addossa ai giovani rischia di farli collassare rendendoli degli esseri soli, deboli e indifesi.
Kon prende il genere dell’horror psicologico per farlo completamente suo, con una maestria del tratto, della regia, della sceneggiatura e del montaggio che lo accompagneranno per tutta la carriera. La sceneggiatura ha un’architettura perfetta, la tensione e la cupezza salgono gradualmente in un’escalation vorticosa che erutta come un vulcano nella parte finale. Frammentando la realtà, infarcendola di visioni e paranoie, Perfect Blue è uno spartiacque che lascia una traccia indelebile sul mondo del cinema, in particolare dell’animazione giapponese. Il regista ha il coraggio di scavare a fondo nella psiche più oscura dell’uomo portando sullo schermo scene di tensione e violenza con una maestria che non ha eguali.
2. Millenium Actress

Gen’ya Tachibana si reca con il suo cameraman su una montagna isolata per intervistare Chiyoko Fujiwara, una delle più importanti attrici giapponesi del 900 al fine di realizzare un documentario su di lei. La Fujiwara inizia a raccontare la propria vita mentre Tachibana e il cameraman vengono fisicamente catapultati nelle storie dell’attrice. Per tutta la vita Chiyoko ha inseguito un rivoluzionario incontrato casualmente negli anni ’20 a cui lei, da ragazzina, aveva dato rifugio. La storia fonde la realtà della vita dell’attrice ai film da lei realizzati e, anche in questo caso, si farà un’enorme fatica a distinguere la realtà dalla finzione.
Millenium Actress (2002) è la seconda pellicola scritta e girata da Satoshi Kon. I piani della realtà e della finzione, in questo caso, fanno un salto ulteriore. Non solo Tachibana e il cameraman assistono ai ricordi narrati da Chiyoko, ma i ricordi stessi sono una fusione tra la vita dell’attrice con i film in cui ha recitato per tutta la sua carriera. Con questa pellicola Kon dichiara tutto il suo amore per il cinema. Un viaggio incredibile, che mette l’atto di fare cinema al centro del proprio discorso. Il cinema è parte integrante della vita dei personaggi tanto da confondersi con essa. Kon lancia un messaggio allo spettatore secondo una lucidissima analisi della propria autorialità. L’importante non è l’obbiettivo finale, la cosa più bella nella vita e nel cinema è la ricerca dell’obbiettivo stesso.
Inoltre, l’amore per il cinema di Kon traspare soprattutto dai film interpretati da Chiyoko che, fin da ragazzina, ha recitato per trent’anni. Assistiamo a qualsiasi genere di film, dagli storici, ai film di samurai fino al distopico fantascientifico. Attraverso la vita dell’attrice più importante del 900 Kon fa fare un viaggio allo spettatore lungo la cinematografia e la storia del Giappone. La meta di questo viaggio è il viaggio stesso.

Durante la vigilia di Natale, tre senzatetto (Gin, un padre di famiglia alcolizzato, Hana, una donna trans impoveritasi dopo aver lasciato il lavoro da drag queen, e Miyuki, un’adolescente scappata di casa) trovano in mezzo ai rifiuti una neonata. Attraverso false piste e coincidenze miracolose i tre senzatetto cercheranno di restituire la bambina alla sua famiglia per raggiungere il proprio riscatto personale.
Terzo film interamente diretto da Satoshi Kon, affiancato alla sceneggiatura da Keiko Nobumoto (Cowboy Bebop 1998-1999) Tokyo Godfathers (2003) è il prodotto meno complesso e articolato del regista d’animazione giapponese. È una favola moderna, piena di umanità che racconta il viaggio di tre reietti nella opprimente metropoli di Tokyo. I tre protagonisti non hanno una casa, ma sono i più umani di tutti gli abitanti di Tokyo. Tratto dal romanzo di Peter B. Kyne, già adattato per il grande schermo da John Ford nel 1948 con In nome di Dio di cui Tokyo Godfathers può essere considerato un remake, questo film ha solo qualche elemento onirico e immaginario disseminato qua e là. La storia è dolce e leggera, con dei momenti tragici e di amarezza degni delle migliori commedie.
Satoshi Kon imbastisce, assieme a Nobumoto, una sceneggiatura impeccabile, fatta di concatenazione di eventi totalmente casuali che risultano però perfettamente coerenti. La forza di questo film sono i personaggi, in particolare i tre protagonisti, con i quali lo spettatore empatizza venendo a conoscenza piano piano del loro passato. Nonostante possa sembrare un’eccezione rispetto al resto della filmografia del regista, anche in questo film la mano di Kon si sente ad ogni frame. Una regia impeccabile cucita addosso a una sceneggiatura di ferro.
4. Paranoia Agent

Tsukiko Sagi, l’adolescente disegnatrice della mascotte di successo Maromi, vive pressioni sul lavoro per creare una nuova mascotte che abbia almeno lo stesso successo di Maromi. Viene aggredita con una mazza da baseball da un ragazzino che se ne va in giro su dei pattini a rotelle. Gli investigatori sospettano che Tsukiko abbia inventato l’aggressione, ma il ragazzino sui pattini a rotelle, che viene chiamato Shonen Bat, continua a mietere vittime. Il detective Ikari e il suo partner Maniwa seguiranno le tracce delle aggressioni per smascherare il fantomatico Shonen Bat diventato ormai una leggenda metropolitana.
Paranoia Agent (2004) racchiude nei suoi tredici episodi, da una ventina di minuti l’uno, la summa poetica di Satoshi Kon. Con i continui cambi di protagonista, le diverse situazioni che si vengono a creare di episodio in episodio, questa serie può all’inizio sembrare spiazzante. Alla fine di ogni puntata ci si chiede dove il regista voglia andare a parare. Con Paranoia Agent tutte le crepe della società giapponese vengono a galla. I giapponesi sono soli, vivono in silenzio le oppressioni del lavoro e della vita sentimentale. Creano una via d’uscita ai propri problemi inventando delle soluzioni, sfogandosi con la tecnologia o creando da zero dei personaggi che sembrano reali. La finzione è uno sfogo e l0unica via di scampo dalla triste e limitante realtà. Ma questa è un semplice palliativo, un evitare l’ostacolo che, col passare del tempo, diventerà sempre più grande e sempre più difficile da sormontare.
Una serie corale, che racconta tutte le tematiche care a Kon attraverso diversi generi cinematografici: dalla detective story, alla commedia grottesca passando per il fantasy simile al gioco di ruolo tanto caro ai giapponesi. Con quest’opera il regista ci dice che le paranoie provocate dalla metropoli forniscono delle soluzioni che sono corrette solo all’apparenza. L’illusione di aver trovato una via di fuga rende l’essere umano un alieno nei confronti della realtà. Purtroppo, queste illusioni sono provocate dalla paranoia, un aspetto tipicamente umano. Per questo, sarà impossibile liberarsene.
5. Paprika

In un futuro prossimo, il dispositivo DC Mini permette alle persone di entrare nei sogni degli altri. Questo strumento viene utilizzato dagli psicoterapeuti per approfondire i propri studi sui sogni e per tentare di risolvere le problematiche dei loro pazienti scavando nel loro inconscio. Atsuko Chiba, la dottoressa a capo del progetto inizia ad utilizzare illegalmente il DC Mini per aiutare i propri pazienti al di fuori della ricerca attraverso il suo alter ego di nome Paprika. Quando tre DC Mini verranno rubati, eventi apparentemente inspiegabili inizieranno ad accadere. Spetterà ad Atsuko Chiba e al capitano Konakawa risolvere il problema.
Presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2006 Paprika è l’ultimo lungometraggio di Satoshi Kon. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una summa di tutto l’operato del regista fino ad ora, ma probabilmente risulta meno efficace e completa di Paranoia Agent che attraverso il format della serie riesce a scandagliare ogni punto del discorso in maniera precisa e dettagliata. Ad ogni modo, Paprika è un film folle, difficile da seguire e probabilmente impossibile da interpretare in un’unica e convincente soluzione. Tutto ruota attorno alla potenza dell’immaginazione, alla creatività del sogno. Più di tutti gli altri, questo film è un inno alla creatività, a quanto la forza del mondo della finzione sia talmente dirompente da poter arrivare a distruggere e a incrinare il mondo della realtà che, a confronto, appare debole e destinato a soccombere.
Grazie a questo film, e alla sua presenza al festival di cinema più importante del mondo, finalmente nel panorama internazionale di critica e pubblico si riconosce al cinema d’animazione un valore che fino ad allora non aveva mai avuto. Quest’opera frammentaria, folle, inorganica permette al cinema d’animazione di elevarsi al pari degli altri generi cinematografici, strappando l’etichetta di “film per bambini” che ingiustamente gli era stata affibbiata per troppo tempo.