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Venezia .68. “Dark Horse”: Todd Solondz sbiadisce in troppa ‘leggerezza’ (In Concorso)

A cosa aggrapparsi quando si prende definitivamente atto della propria incapacità di realizzare se stessi come si desidera? Solondz ci dà la soluzione: il sogno.

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L’aveva dichiarato: con Dark Horse, Todd Solondz, padre di un lucido cinismo che fa del disincanto il proprio scandaglio nel renderci la malattia di una società dove il mentire a se stessi (nel privato come nel pubblico) e l’incassare frustrazioni su frustrazioni, in un adeguamento perdente rispetto ai vari stereotipi e modelli imposti, generano veri e propri ‘mostri’ (pennellati con tragica ironia e implacabilità), si è messo alla prova.

Volevo solo vedere se ero capace di fare un film che non parlasse di stupri, pedofilia o masturbazione…” ed, in effetti, l’atmosfera di questa pellicola appare decisamente più rarefatta, anche se la tipologia degli antieroi di Solondz non cambia. Abe (alias Jordan Gelber) è un trentenne ancora adolescente, incapace di prendersi qualsiasi tipo di responsabilità. Vive con i genitori (un duo da collezionare: Christopher Walken e Mia Farrow), nella (loro) grande e bella casa borghese, gira dentro un enorme fuoristrada-giocattolo, e tenta con svogliatezza piena di mantenersi un magro lavoro da impiegato nella società del padre, acquistando giocattoli su Youtube invece di comporre diagrammi e tabulati.

Abe vive in un mondo tutto suo: è ben cosciente che il proprio mancato riuscire  in tutto dipende esclusivamente da lui, ma ha sempre l’alibi a portata di mano, e l’unica ‘arma’ per  spronarsi la contiene  nella suoneria del proprio telefono cellulare, che candidamente (ogni giorno) lo allerta che il momento del cambiamento è arrivato, che deve pensare positivamente e crederci. Un reale stimolo si materializza subito, appena facciamo la conoscenza di Abe: ad un matrimonio, mentre quasi tutti gli invitati ballano un ritmo ‘tecno’, al tavolo di Abe, ferma e impalata in un’espressione inebetita, c’è una donna: Miranda (una Selma Blair splendida anche nella lobotomia che il suo personaggio incarna). Abe ne rimane folgorato. Miranda risponde alle sue domande come un automa, e nella stessa modalità gli lascia il numero di casa, dall’uomo cercato a tutti i costi. La donna, da quel momento riempie tutti gli alibi di Abe: la vede come il proprio riscatto, e se ne innamora immediatamente, proponendole, al primo incontro, di sposarla.

Miranda è un pari di Abe, anche lei con la sua cameretta, nel nido paterno e materno, assolutamente inadulta rispetto al proprio status anagrafico, affetta anche da un grosso esaurimento. È completamente disperata, e proprio per questo riesce a superare l’indifferenza che la vicinanza dell’uomo le suscita: Abe non è affatto il suo tipo, ma vuole volerlo, e questo dilemma viene spiattellato all’uomo tranquillamente in faccia. Dopo tutti i fallimenti rispetto alle sue ambizioni letterarie, al rapporto con gli uomini, alla propria indipendenza economica, l’unica soluzione era sottomettersi ed annullarsi dentro un matrimonio e dei figli…Anche se lei e Abe sono completamente diversi per gusti e abitudini, per modi di essere…anche se non è assolutamente attratta da lui, confessa lucidamente il compromesso al suo fremente innamorato… Che naturalmente accetta. Quindi, almeno apparentemente, pare fatta.

Ma le cose per Abe si complicano: dopo il fidanzamento ufficiale, Miranda gli rivela di avere l’epatite, il lavoro col padre pare andare in malora, data l’ennesima mancanza di Abe nelle mansioni assegnategli…Neppure la collaborazione di Marie (una matura segretaria che gli è sinceramente vicino), può impedire lo sfacelo… E come uscire da tale soccombenza …quando si prende definitivamente atto della propria incapacità di realizzare se stessi come si desidera? Solondz ci dà la soluzione: il sogno. Mescola, perciò, il desiderio con la realtà, sovrapponendo e confondendo i due piani, soprattutto nel momento del bisogno, quando è indispensabile affidarsi alla propria immaginazione per sopravvivere allo shock di scoprirsi senza via d’uscita: Abe se ne inventa una diversa, ogni volta e come vuole. La chiave di lettura di Solondz, sulla carta, parrebbe destinata a funzionare, ma nella resa si sfilaccia… Non convince, né nell’ironia, che non sa essere pungente se non superficialmente, né nel tratteggio della vicenda, che si confonde troppo, portandoci, improvvisa ed imprevista, una fine  che (paradossalmente) assurge a migliore mossa giocata o subita, rispetto ad una vita nel sogno.

Maria Cera

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