La regista francese Sylvie Ohayon presenta al Bif&st il film Haute Couture: un universo femminile fatto di bellezza e eleganza.
Haute Couture: una storia a tinte rosa
Questo è un anno, cinematograficamente parlando, dominato da donne: a Venezia 78, è stata proprio una regista, perlopiù francese come la Ohayon, ad aggiudicarsi il Leone d’Oro con L’événement e al Bifest un’altra giovane autrice propone un film a tinte rosa, dominato da un’attrice di grande esperienza come Nathalie Baye (tre César e una Coppa Volpi).
Del resto è la stessa regista a dichiarare l’importanza delle figure femminili nella sua vita, figure che hanno compensato la mancanza di un padre.
E così Haute Couture, oltre ad essere un inno al mondo della moda e a una delle maison più importanti al mondo come Dior, è un atto d’amore nei confronti di quelle donne che hanno segnato indelebilmente l’esistenza della Ohayon: la nonna, la madre e la figlia (a cui questo film è dedicato).
La storia è semplice e lineare, a metà tra romanzo di formazione e dramma: una giovane algerina della banlieue parigina, Jade, (la bellissima Lyna Khoudri) incontra casualmente Esther (Nathalie Baye), capo sarta del laboratorio Dior nel centro parigino.
Un incontro che cambierà la vita alla ragazza, senza prospettive né ambizioni; Esther intravede in Jade talento e capacità, la accoglie come una figlia nella prestigiosa maison e le fa da mentore.
Haute Couture: contrasto tra due mondi, la banlieue e il centro di Parigi
I mondi di Esther e Jade non potrebbero essere più distanti: la prima è una donna benestante che ha fatto del suo mestiere la propria ragione di vita, trascurando gli affetti, la seconda vive tra stratagemmi e furti, con una madre depressa e un’amica scansafatiche.
Ohayon contrappone la vita della periferia a quella del centro: da un lato la banlieue parigina, un luogo ai margini della società, dall’altro una bolla dorata fatta di bellezza, ordine e rigore.
Jade si inserisce, a fatica, nell’ambiente lavorativo, ma il legame che pian piano instaura con Esther e la fiducia incondizionata che la donna le dimostra, la stimolano a diventare una persona migliore, con una propria dignità e indipendenza.
La regista costruisce un film che si regge quasi esclusivamente sul carisma di Nathalie Baye (tra i suoi lavori Laurence Anyways di Dolan e Prova a Prendermi di Spielberg) ; la storia decolla pian piano, senza una svolta narrativa incisiva. Qualche buona intuizione mai sviluppata pienamente, poco ritmo e personaggi secondari che restano sullo sfondo.
La storia d’amore di Jade con un suo collega, ad esempio, viene solo accennata, così come le relazioni con la famiglia e la sua miglior amica.
Un inno alla bellezza e al lavoro delle donne
Ohayon ha rivelato che l’idea del film è nata in un modo del tutto casuale; un giorno ha accompagnato una sua amica, rimasta incinta prima delle nozze, in una famosa sartoria parigina per le modifiche del suo abito da sposa, ed è lì che viene colpita dalla bellezza che la circondava, l’eleganza dei gesti e dall’accento parigino molto marcato di una delle sarte.
In effetti, lo sguardo della regista è quasi contemplativo: ammiriamo i capi, la preziosità dei tessuti e dei ricami, la laboriosità delle “mani di fata”, il corpo statuario delle modelle, le strade e i café di Parigi.
Il film, come ha affermato la stessa Sylvie, è un omaggio al lavoro delle donne, all’importanza di “crearsi” un mestiere e alla grandeur della Francia che, da sempre, fa dell’eleganza il proprio tratto distintivo.