Dopo il film Atlantis (Premio Orizzonti nel 2019), il regista ucraino Vlentyn Vasyanovych è tornato a parlare del conflitto russo-ucraino in Reflection (Vidblysk), tema che egli eleva a riflessione esistenziale sulla vita e sulla morte.
La tragedia ucraina arriva così alla Biennale di Venezia, diretta da Alberto Barbera, come momento di approfondimento e sensibilità su quella tragedia ucraina che sta tenendo il mondo con il fiato sospeso. Il film è stato distribuito in Italila da Wanted.
Reflection: opera (meta)fisica sulla crudeltà del mondo
Serhiy è un chirurgo ucraino che viene catturato e fatto prigioniero dalle forze militari russe in una zona di guerra dell’Ucraina orientale.
La permanenza in carcere si rivela un’esperienza destabilizzante: davanti ai suoi occhi si susseguono scene di violenza, orrore e umiliazione verso la vita umana.
Tornato in libertà, il medico riprende la sua normale routine nel suo appartamento borghese. Tenta anche di ricostruire la sua vita, riallacciando i rapporti con la figlia e l’ex moglie.
Il suo processo di rinascita, dopo la prigionia, lo porta a reinventare la propria umanità. Si interroga sulla caducità della vita, sulla crudeltà del mondo e sull’ineluttabilità della morte.
Il merito di Vasyanovych è quello di aver realizzato un film che parte dall’analisi di un conflitto per abbracciare una riflessione più ampia. È una riflessione (quasi metafisica) sulle atrocità del mondo, sul senso di impotenza e colpa di fronte ad esse e sull’importanza delle relazioni, in primis i legami familiari.
Vasyanovych costruisce visivamente la storia utilizzando prevalentemente la camera fissa. Una successione di pianisequenza in cui lo sguardo del regista resta distante, in modo tale che tra lo spettatore e le immagini non si frapponga nulla, nemmeno le musiche, assenti nel film (contrariamente ai suoni, potenti, sovrastanti).
La violenza esplode sui corpi, reificati, martoriati, in un contesto estremo, quasi insostenibile. E, per contrasto, nella seconda parte di Reflection, la quiete che avvolge l’ordinarietà della vita di Serhiy (dopo una morte metaforica, dell’anima) appare, anch’essa, intollerabile nella sua artificialità e insensatezza.
La tragicità della guerra opposta all’agiatezza e alla sicurezza di un appartamento, si connettono in un gioco di “riflessi” tra vita e morte, dove l’una assume valore solo messa in relazione con l’altra.
Tuttavia, Reflection è un film difficile da elaborare e faticoso da guardare. Non lo è solo per le scene cruenti della prima parte, ma anche per l’eccessiva staticità delle immagini e la netta contrapposizione tra le due sezioni dell’opera. In in ogni caso la suddivisione non crea dinamicità nella storia né provoca un coinvolgimento emotivo del pubblico.
Reflection: lo sguardo “riflesso” di Serhiy
Le inquadrature statiche e frontali si avvalgono di schermi o vetri (come il parabrezza di una macchina o la superficie trasparente della scena iniziale in una sala di paintball). Essi proteggono i protagonisti nel loro mondo avulso dagli orrori della guerra e dalla fatalità della morte.
Al contempo, la visione del regista, nel descrivere le torture e le efferatezze, appare schermata da un vetro. Egli restituisce delle immagini, i loro riflessi nitidi e puri, mantenendo una lucidità e un distacco che, per effetto paradossale, amplificano la potenza delle scene.
Curioso il fatto che il film nasca da un episodio apparentemente irrilevante, come ha dichiarato lo stesso regista: lo schianto di un piccione contro una finestra. Una scena, tra l’altro, riportata nel lungometraggio.
Quell’incidente, così crudele e fatale per lo sfortunato volatile, ha suscitato una reazione molto forte nella figlia del regista, di soli dieci anni.
L’irreversibilità dell’evento, la speranza disattesa in una miracolosa risurrezione dell’animale hanno condotto Vasyanovycha riflettere sulle paure insite nell’animo umano. Veniamo messi davanti all’incontro con la morte e sul senso di terrore e inadeguatezza che ognuno di noi prova di fronte alla crudeltà della vita. E alla violenza, quella inflitta dagli uomini ai propri simili e quella casuale. Una violenza voluta da un fato che si limita ad osservare, proprio come la macchina da presa del regista nel suo Reflection.
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