È quasi impossibile guardare Jungle Cruise, disponibile su Disney+, senza pensare alla saga di Indiana Jones, di cui quest’anno si celebrano i 40 anni. Tutto il prologo ricorda il personaggio di Spielberg, le coordinate della sua mitologia, così come il racconto sembra voler rilanciarne le atmosfere e ricordarne gli elementi costitutivi: ma il film diretto da Jaume Collet-Serra vuole anche riconnettersi alle serie d’avventura contemporanee di maggior successo, come La mummia e I pirati dei Caraibi, per portare il genere al pubblico familiare dei nostri giorni, abituato a un certo tempo di sofisticazione tecnologica.
I pirati del Rio delle Amazzoni
I protagonisti sono la dottoressa Lily Houghton (Emily Blunt), scienziata e avventuriera che sta cercando le Lacrime della Luna, un fiore la cui essenza è in grado di curare ogni cosa, e Frank Wolff (Dwayne Johnson), un mezzo cialtrone che conduce i turisti lungo la giungla fluviale e che viene coinvolto da Lily nella sua ricerca. Ovviamente, non sono i soli a voler dare la caccia al fiore, ed è una caccia che risale fino al 16° secolo, all’epoca dei conquistador. Ispirandosi, proprio come I pirati dei Caraibi, all’attrazione dei parchi giochi Disney, John Norville, Josh Goldstein, Glen Ficarra, John Requa, Michael Green, J.D. Payne e Patrick McKay (incredibile che servano 7 persone per finalizzare una sceneggiatura del genere) compongono un film d’avventura dal target trasversale, che deve scontare però proprio il confronto con i suoi modelli.
Lily Houghton e il tempio maledetto
Perché ovviamente si potrebbero fare le pulci a Jungle Cruise proprio basandosi su ciò che dai film del passato ha preso più o meno consapevolmente in prestito, dalla caratterizzazione dei protagonisti alla modulazione dell’intreccio, dalle situazioni al modo di usare gli effetti speciali fino a singole sequenze, come la gag del rumore che Lily fa per forzare un baule e che si sovrappone al semplice lavoro dei bibliotecari, come accadeva in Indiana Jones e l’ultima crociata, e ogni qual volta si impongano confronti simili il nuovo finisce, volente o nolente, per perdere.
Però il film è perfettamente consapevole delle sue derivazioni, anzi essendo un’attrazione da luna park diventata cinema sembra cercarle, sembra chiedere allo spettatore di meravigliarsi e, contemporaneamente, di riconoscere le citazioni. Ne è una prova il doppio prologo, prima dei titoli di testa: da una parte, una sequenza d’avventura tipica, che guarda al montaggio slapstick tipico di Indy, dall’altra invece una sequenza ironica, tutta meta-linguistica, in cui l’avventura che lo spettatore vede è smontata e mostrata proprio come un grande gioco, come una messinscena che imita il passato.
Jungle Cruise: Il luna-park dell’immagine digitale
Il vero limite di Jungle Cruise semmai è nella regia di Collet-Serra che non sembra particolarmente adatta alla velocità scanzonata che il film richiederebbe e che si appoggia quasi esclusivamente agli effetti in CGI più che al movimento interno della macchina da presa. È un limite che però si può superare perché i personaggi principali e gli attori hanno la simpatia e il carisma giusti, sanno coinvolgere lo spettatore e anche nell’ovvio baraccone finale lasciano un senso di simpatia che, preso il film nei suoi limiti e per ciò che vuole essere, non delude. Sembra più Allan Quatermain o Patrick O’Malley che Indiana Jones, ma se si sale su una giostra non si pensa troppo ai dettagli o all’originalità. Ci si limita a godersi il breve viaggio.