Ancora su Shūji Terayama per il suo capolavoro, Den-en ni shisu (Morte in campagna), girato nel 1974 e presentato a Cannes nel 1975. “Fin dall’inizio la pellicola rivela la sua natura autobiografica. Le vicende narrate nel film si svolgono infatti in un villaggio ai piedi del Monte Osore, nel distretto di Aomori, dove Terayama era nato e cresciuto. Tali località, ribattezzate nel film “Montagne Spaventose”, rese misteriose da nebbie sulfuree ed esalazioni mefitiche, sono famose soprattutto per la presenza delle leggendarie “itako”: donne cieche dalla nascita che dedicano la propria vita alle pratiche sciamaniche ed alla magia, rivolgendosi alle quali è possibile, secondo la tradizione, mettersi in contatto con gli spiriti delle divinità e dei defunti.
È quindi un onirico e visionario Giappone di campagna a far da sfondo alle vicende narrate da Terayama, proprio quel Giappone bucolico che appartiene al background culturale più personale ed intimo dell’autore.
La storia, in un primo momento, si concentra sul tentativo di un ragazzo quindicenne (senza nome, come tutti i personaggi del film) di scappare dalle grinfie di una madre iperprotettiva. La seconda metà della pellicola stupisce cambiando sorprendentemente registro, fino ad arrivare ad affrontare metacinematograficamente il desiderio del regista stesso di confrontarsi con la propria creatura filmica. Ispirato all’omonima serie di haiku scritti da Terayama stesso circa la sua infanzia (haiku che ricorrono nel film stesso scandendone i momenti più importanti), “Pastoral”[1] è un film complesso, misterioso, enigmatico, estremamente evocativo e surreale, nel quale l’autore affronta praticamente tutti quelli che sono i suoi soggetti prediletti, a partire dai temi freudiani della crisi adolescenziale e della perdita dell’innocenza.
Il sesso viene usato come veicolo espressivo e la violenza, non solo fisica, è esplicita, assurgendo a simbolo del dilagante malcontento che aleggiava in quel Giappone che, forse troppo velocemente, stava trasformandosi da un modello di società legato alla tradizione, ad un nuovo e più moderno modello mediato dall’Occidente. In questo senso in “Pastoral” affiorano diverse tematiche sociali, a partire da quelle riguardanti i problemi di comunicazione tra gli individui, fino ad arrivare alla protesta nei confronti delle convenzioni e delle forme precostituite – persino dello stesso cinema – ed il conflitto generazionale, con particolare interesse per il rapporto tra un adolescente e la propria madre.
Ma il film non si ferma a questo: probabilmente il tema centrale dell’intera pellicola è quello della decostruzione dell’io e dei propri ricordi.
Proprio quest’ultimo è uno dei temi più presenti nella produzione cinematografica di Terayama, dove spesso e volentieri si lega ad un’ulteriore riflessione di carattere sociale: Terayama avvertiva come necessario il bisogno di “purificare” la società tramite la purificazione dei pensieri e dei ricordi dei membri che la compongono. Elementi troppo spesso incrostati dai pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni fuorvianti. Queste “impurità”, secondo Terayama, impediscono all’uomo che ne è “affetto” di vivere liberamente”[2].
Questa lunga nota, esaustiva sotto il profilo dello svolgimento delle sue ipotesi analitiche, ci consente di comprendere le ragioni biografiche del film e gli esiti espressivi cui è giunto Terayama. Anzitutto nel rifiuto di quell’orientamento critico che ha volto scorgere nel film il punto di non ritorno di una vocazione autoreferenziale, in quanto se è vero che l’opera è disposta a un concettualismo estremo tuttavia non appare dissaldata da quelle ipotesi di esperienza che non si pretendono come logiche (dunque narrative) ma come visionarie (dunque iconiche e presegniche).
La spartizione emotiva tra pubblico e film (questo film) avviene sotto il segno dell’attrazione inconscia, non del percorso intellettualmente consequenziale, anche alla luce delle innovative tecniche di illuminazione sulla scena e di recitazione fondate sulla reazione improvvisa degli attori (a tal proposito, il regista ha dichiarato a Joan Mellen: “In una sezione uso soltanto una luce e poi lascio scomparire ogni cosa. La luce viene accesa in un punto piuttosto che in un altro. L’attore nel film deve chiedere che le luci vengano accese perché non lo faccio volentieri”[3]. Terayama sa quanto la memoria condizioni, pieghi, escluda e ampli: su questo dato freudiano, egli tenta la liberazione attraverso il ricordo, così che il suo cinema appare sperimentale in quanto ha facoltà di trasgressione della norma filmica.
Cinema panico, ma non nel senso del geniale Jodorowsky o di Fellini: qui infatti manca l’impalcatura esoterica del primo e l’ipocrisia della memoria del secondo, in quanto l’evocazione memoriale di Terayama ha il valore dell’epifania, dell’attraversamento repentino dei codici logici in favore della visione, dell’immagine latente che scioglie il flusso di coscienza: la forma è una impenetrabile allegoria ultrasoggettiva intrecciata all’anamnesi di motivi dolorosamente freudiani (il sesso come luogo della perdita dell’innocenza) fino alla catarsi della liberazione.
E in quanto cineasta panico Terayama ha tratti di una mistica squisitamente orientale, trasgressiva ma sensibilissima, corrotta dalla modernità nelle sue ipotesi di delirio esistenzialista senza che essa smarrisca mai la suggestione poetica e il sostanziale lirismo di fondo (un lirismo a suo volta abraso dalla tendenza logica metacinematografica e post-godardiana), persino nei momenti in cui il fascino ostico e quasi implacabile della pellicola si intrica difettivamente col narcisismo d’autore (cerebrale, ovvio, ma profondamente emotivo).
Allora siamo sul terreno dell’analisi della rimozione simbolica attraverso la rappresentazione dell’incesto – nel tentativo, poi, di liberazione dal dominio materno alla libertà – come spazio sensibile della specularità metafisica del soggetto. Come ha dichiarato lo stesso Terayama: “Se desideriamo liberare noi stessi, pulire la storia dell’umanità in noi e la storia della società intorno a noi, dobbiamo cominciare col liberarci dei nostri stessi ricordi. Ma questo avviene quando i nostri ricordi cominciano a giocare a nascondino con noi stessi e risulta difficile il confronto. In questo film il personaggio centrale intraprende una certa qual revisione del suo passato. Io ho cercato di aiutarlo a trovare la sua identità, e quindi forse, l’identità di tutti noi”[4].
[1] La versione inglese del film è nota col titolo di Pastoral: to die in the country.
[2] Da www.asinaworld.it . L’autore si cela dietro lo pseudonimo di c4fen01r.
[3] Joan Mellen, op. cit.
[4] Da Sipario, n° 353-354, ottobre-novembre, 1975.