Rasputin (Francesco Cabras) è il “santo-demonio” che visse nella Russia degli ultimi anni dell’impero Romanov, l’uomo venuto dalle fredde campagne che riuscì a diventare consigliere personale dello Zar Nicola II e che entrò nelle grazie della Zarina Alessandra Feodorovna, dopo averne miracolosamente guarito il figlio, grazie ai suoi poteri taumaturgici. Una figura misteriosa, ereditata dall’iconografia cattolica, sospesa tra la sacralità del ramingo pellegrino e la sulfurea ombrosità dell’occultista.
Louis Nero ritorna al lungometraggio per costruire una personale biografia del personaggio più enigmatico della Russia del XX secolo, scegliendo di focalizzare il tutto sulla congiura che la nobiltà che ronzava attorno alla famiglia dello Zar organizza per sbarazzarsi dello straniero, che aveva conquistato, con le sue malie, la fiducia della famiglia imperiale, scalando le vette dell’alta società russa.
“La verità supera la leggenda”, recita il sottotitolo del Rasputin (2010) di Nero, ed è proprio su questa dicotomia, tra il reale e l’incredibile, che s’instaura la sua opera di ricostruzione storica, sulla dualità di cui era avvolto lo stesso Rasputin, vissuto in odore di santità, ma lottando con se stesso nell’eterna ricerca della verità di Dio all’interno del male e del peccato.
Il Rasputin di Louis Nero è un esperimento filmico sui generis: nato con lo spirito critico di un film storico, arricchito con la curiosità tipica del bio-pic, ma che, tirando le somme, non è nulla di tutto questo.
Rasputin è, infatti, qualcosa di molto più vicino ad una messa in scena teatrale, soprattutto guardando alla sua struttura drammaturgica: raramente i personaggi cercano un rapporto vicendevole, mentre si affannano nel rapportarsi direttamente con lo spettatore, come se la storia della congiura contro il “santo-demonio” potesse essere raccontata solo come una serie di confessioni, di colpevoli e di testimoni, ad un pubblico che viene elevato a giuria popolare.
Ma non è solo a livello drammaturgico che bisogna guardare: c’è teatro anche nei tanti campi lunghi, che siano case sfarzose, lande innevate o luoghi angusti e oscuri; nei colori caldi, illuminati a fatica dalla luce di candele e focolari.
Louis Nero sviluppa fino al limite della video-arte il suo processo di teatralizzazione, innestando nel suo film quelli che, in teatro, vengono definiti gli “a parte”, momenti in cui i personaggi si estraniano momentaneamente dalle vicende vissute per riflettere, in solitaria o con il pubblico, su quello che sta succedendo. Nero innesta gli “a parte” dei suoi personaggi livellando il flusso video su più livelli: all’interno delle scene corali si innescano (video su video) dei quadranti contenenti i primi piani dei personaggi che, con sguardo in camera, comunicano al pubblico le proprie reali intenzioni, o i peccati commessi.
Lo stesso Rasputin si rivolge spesso al pubblico, già nell’incipit del film, in cui il taumaturgo tenta di ipnotizzare lo spettatore per portarlo mentalmente all’interno della sua storia.
Entrare all’interno di questo habitat teatrale, però, è una cosa non proprio semplice, nonostante le atmosfere fotograficamente avvolgenti, infatti, proprio la sua teatralità e il suo mostrarsi in maniera volutamente frammentata rivelano l’intenzione del regista di far rimanere il pubblico vigile, senza permettere in alcun modo una permeazione sensibile. Proprio per rispettare questo ruolo che gli viene offerto: il giudice.
Questa, però, è un’arma a doppio taglio: un film che vorrebbe essere ammaliante (nella sua accezione più magica), ma che non vuole essere perfettamente fruibile e, quindi, non imprigiona.
Nel cast anche Davide Savoca e Ottaviano Blitch, e la voce narrante di Franco Nero.
Luca Ruocco
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