JU-ON ORIGINS, diretta da Sho Miyake e creata e scritta da Hiroshi Takahashi e Takashige Ichise, è la miniserie Netflix che prende spunto da uno dei franchise horror più famosi fino a qualche anno fa, con sei episodi disponibili sulla piattaforma dal 3 luglio 2020.
E diciamo subito che, a dispetto del teaser trailer e dalle aspettative, questa JU-ON ORIGINS è un’operetta fresca e godibile, adatta per dare qualche brivido durante l’afa estiva.
LA STORIA
Yasuo Odajima è uno scrittore appassionato di paranormale, sempre alla ricerca di eventi misteriosi ed inspiegabili: quando viene a conoscenza della storia di Haruka Honjo, attrice giovanissima che sostiene che in casa sua, di notte, sente veloci passi nelle altre stanze, decide di indagare.
Yasuo scoprirà che l’avvenimento non è collegato alla casa dell’attrice, scavando tra le connessioni di diverse vicende simili, Odajima scoprirà di essere al centro della maledizione, una maledizione che non potrà fermare.
JU-ON -il primo kanji significa “maledizione” mentre il secondo “rancore“: in sé per sé la parola non ha una sua reale traduzione ma solo un senso facilmente deducibile dal significato dei due kanji- è, come detto sopra, un franchise che ha letteralmente spopolato negli anni Zero: a seguito dell’invasione dei J-Pop (ovvero degli horror nipponici), insieme a RINGU hanno davvero riscritto la grammatica dell’orrore al cinema, intervenendo sulla sintassi della scrittura e su un’iconografia che sul grande schermo era ferma agli anni ’80.
DAL J-POP AL DEJA-VU
Considerando l’enorme sfruttamento del marchio, era lecito credere che JU-ON (qua i momenti più spaventosi del franchise) fosse diventato definitivamente e legittimamente parte del passato, guardando con sospetto una miniserie che, a quanto sembrava dalle immagini del trailer, continuava imperterrita a mostrare le stesse cose e gli stessi jump-scares.
Chi ha un’infarinatura anche lieve del genere (non solo JU-ON e RINGU, ma anche THE CALL, DARK WATER, TOMIE…) sa bene come in genere questa tipologia di film prende spunto dal trauma fisico di una donna: omicidio, suicidio, tortura o stupro sono le pratiche ricorrenti perpetrate sul femminino radicandosi così in maniera profonda nel sostrato culturale e sociale del Giappone.
Ovvio quindi che JU-ON ORIGINS potesse essere guardato e atteso quantomeno con sospetto, considerando quanto di poco potesse spostarsi da quelle tematiche ormai abusate. E invece, Miyake alla regia ma soprattutto Takahashi e Ichise nella scrittura, ci stupiscono confezionando sei mini film (ognuno di 30 minuti ciascuno) che spostano continuamente l’attenzione su storie diverse, prima intrecciandole debolmente e poi mostrando la nervatura comune, spaziale, emotiva e narrativa.
Una scrittura insomma fine e intelligente, unita ad uno stile di regia che, classicamente, mostra l’inizio dell’orrore per poi spostare lo sguardo fuoricampo lasciando che l’immaginazione riempia gli spazi della paura e della suggestione.
È proprio grazie a questo che JU-ON ORIGINS sbalordisce per il tasso di intensità e ferocia -inediti rispetto alla saga al cinema-, con esplosioni di violenza inaspettate che si collegano alle vertigini delle profondità dell’animo umano, e affascina per l’ambientazione consapevolmente dimessa e quotidiana, facendo deflagrare la storia grazie a personaggi e racconti in punta di penna, minimali, intimi, che poi premono improvvisamente il pedale del terrore.
La miniserie Netflix cattura perfettamente l’essenza di JU-ON e del suo significato profondo, emotivo e culturale; ma riesce incredibilmente a mantenere una sua identità, lasciando che ogni episodio (dei sei totali per la prima stagione) sia perfettamente compiuto in sé, facendo però parte di un ordito più vasto, in un affresco horror che si colora delle profondità culturali e delle paure di un paese.