“Alla base del film c’è un triangolo amoroso, composto da due uomini che si contendono la stessa donna, ma i due litiganti sono il fidanzato e il figlio mammone….”
Cyrus (Jonah Hill) è un ventenne parecchio strampalato e attaccato morbosamente alla madre, Molly, (Marisa Tomei) che l’ha cresciuto completamente sola e in totale assenza di una figura paterna. Madre e figlio hanno un rapporto talmente esclusivo che quando nella vita di Molly entra John (John C. Reilly) tra i due uomini nasce una forte competizione. Cyrus, mosso dal classico complesso edipico, tenterà ogni stratagemma per separare la coppia appena nata, innescando una battaglia ricca di colpi bassi.
Cyrus è una black comedy dallo svolgimento narrativo naturale, dove anche la recitazione risulta molto libera e fluida, senza rigidi schemi di sceneggiatura a cui attenersi. Il lavoro è singolare, ma solito per lo stile dei due registi, i fratelli Duplass (nati dal Sundance), autori abituali di prodotti cinematografici indipendenti, a basso budget e basati sull’improvvisazione.
Alla base della sceneggiatura c’è un triangolo amoroso, composto da due uomini che si contendono la stessa donna, ma questo triangolo è abbastanza sui generis dal momento che i due litiganti sono il fidanzato e il figlio mammone, in competizione tra di loro per accaparrarsi l’interesse totale di Molly. La trama, abbastanza originale, garantisce un plot pieno di conflitti e di momenti di singolare humor.
In questa commedia si respira una profonda atmosfera di verosimiglianza alla realtà quotidiana, poiché sono assenti fantasiosi voli pindarici; le indicazioni con cui i Duplass dirigono il cast sono orientate su una grande libertà interpretativa, negando la possibilità di incarnare ruoli scomodi o troppo sopra le righe, anche se i protagonisti appaiono molto ben caratterizzati nelle loro rispettive stravaganze.
I classici punti cruciali della sceneggiatura non sono mai eccessivi o improvvisati, al contrario tutto è molto ben architettato, in modo così fluido che quasi non si percepisce il fitto lavoro alla base dello script. Il cast svolge bene il compito per cui è chiamato e la regia, che si serve spesso della camera a mano, è funzionale al gioco della verosimiglianza. Proprio per questo particolare stile il film è parecchio veloce, non sembrando mai troppo patinato. La scelta dell’improvvisazione risulta una caratteristica peculiare che, emergendo in maniera preponderante, valorizza l’opera. John C. Reilly, nato come attore e autore teatrale, in questa dimensione si ritrova moltissimo, dichiarando che proprio il carattere sperimentale del film è stato ciò che l’ha spinto ad accettare la parte. Anche Marisa Tomei sembra avere un ruolo che le è stato cucito addosso, ricordando un po’ una versione più matura e assennata della Mona Lisa Vito di Mio cugino Vincenzo (1992).
Molti sono i momenti di umorismo, a tratti anche parecchio esilarante, e non manca, tuttavia, il momento di riflessione, che però non scade mai in retorica. È una storia semplice e ben esposta, che parla d’amore e di rapporti umani, di sentimenti, una descrizione di un incontro in età adulta, in cui si prova a far collimare i propri bagagli esperienziali per costruire qualcosa di nuovo, con tutti i problemi che ne conseguono e con tutti i conti da pagare che la vita ci presenta.
Chiara Nucera
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