Eastwood e il secolo lungo del cinema americano
A voler sintetizzare, molto alla buona, secondo lo storico britannico Eric Hobsbawm, nel suo saggio Il secolo breve, il periodo compreso tra le guerre mondiali del 1900 e il crollo dell’Unione Sovietica aveva racchiuso una serie di eventi e processi paragonabili, per numero, importanza e intensità, a quelli accaduti durante più secoli precedenti. Come se si fosse assistito a una sorta di accelerazione della storia. A mio parere, però, nel panorama del cinema internazionale mainstream si potrebbe invece dire di esser ancora, dal dopoguerra ad ora, all’alba di un nuovo secolo o millennio, nel secolo lungo del cinema americano e della sua retorica nazionale. E non poca parte di questo secolo ha coinciso coi 90 anni di Eastwood.
Un attore, un regista e un compositore che più di ogni altro ha finito per impersonare il secolo lungo americano del cinema mainstream e non solo. I capolavori della tappa finale della sua carriera, ma anche il “Go ahead, make my day!” (“Coraggio, fatti ammazzare!”) e l’ideologia politica libertaria e assertiva dell’America più profonda. Anche al di là della sua stessa volontà, attraverso non poche variazioni, soprattutto lungo il suo interminabile finale di carriera, e un cliché attoriale che ha sposato o edificato (è nato prima l’uovo o la gallina?) l’ideologia di fondo del cinema americano mainstream, capolavori inclusi: 90 anni, o qualcosa in meno, di successi e insuccessi, di sorprese narrative e cicliche reintepretazioni di un unico carattere – dirty Harry/Clint – riproposto nei costumi dei personaggi più disparati.
I migliori film di Clint Eastwood
Certo, il fenomeno “Clint” non è stato solo questo, come i pancake non sono solo burro, farina e uova, eppure sarebbe difficile sostenere che sia lo sciroppo d’acero a esaurire il perché della fama del celebre piatto nordamericano, non di rado presente nelle colazioni o nelle merende durante le quali al poliziotto Callaghan (o ai suoi ‘cugini’ negli altri polizieschi interpretati da Eastwood) poteva capitare di sventare una rapina o un torto ai cittadini indifesi.
Così il retrogusto dolce-amaro dei suoi più oggettivi capolavori alla regia – Gli spietati (Unforgiven, 1992), Un mondo perfetto (A Perfect World, 1993), Million Dollar Baby (2004), Lettere da Iwo Jima (2006), Flags of Our Fathers (2006), Gran Torino (2008) e, forse, Il corriere – The Mule (The Mule, 2018) – che gli hanno pure fruttato, e per ben due volte, i meritatissimi Oscar alla miglior regia e al miglior film, oltre ad uno alla memoria Irving G. Thalberg al produttore creativo. E pur tuttavia sarebbe difficile affermare che essi costituiscano l’intero mosaico di una figura che ha finito per consolidare un’immagine volutamente stereotipata o profondamente americana dell’uomo Clint.
L’immagine di una biografia e la biografia di un’immagine
In effetti, per molti anni si è fatto fatica a capire se ci si trovasse di fronte a un’immagine d’attore corrispondente a una biografia poi intimamente diversa o alla biografia esatta di un’immagine alla quale l’uomo aveva piegato la propria vita e i propri gusti, anche politici e culturali, nel solco di una caratterialità venuta alla ribalta del grande pubblico grazie agli spietati personaggi interpretati sin dai tempi della sua scoperta ad opera del nostro Sergio Leone (Per un pugno di dollari, 1964, Per qualche dollaro in più, 1965, Il buono, il brutto, il cattivo, 1966).
La politica nel disprezzo della politica di mestiere o di sistema
Che fosse di preferenze repubblicane, d’altronde, pur professandosi assolutamente libertario (favorevole ai matrimoni gay e all’eutanasia), non era mai stato un mistero. Ma che lo spirito e l’intelligenza di quest’uomo, nato a San Francisco nel Maggio del 1930, divenuto attore per puro caso (furono gli amici a spingerlo ad accettare un provino agli studi Universal negli anni ’50), coincidesse con quella assai ‘spiccia’ dei suoi cowboy o poliziotti dal ciglio o labbro sollevato sopra il bavero, a esprimere innato fastidio per il sistema di cui, in fondo, facevano parte, divenne indelebilmente chiaro col celebre discorso alla sedia vuota sul palco della Convention Nazionale di Mitt Romney. Un discorso rivolto ad una sorta di invisible Obama, come lo definì la stampa dell’epoca, ma che finì per oscurare, secondo le più elementari regole cinematografiche, persino “l’ora del business man” Mitt Romney al quale era pure venuto in soccorso.
Il cowboy, il poliziotto. L’americano
Era l’agosto del 2012 e ancora l’ottantaduenne Clint doveva regalarci le ultime fatiche – Jersey Boys (2014), American Sniper (2014), Sully (2016), Ore 15:17 – Attacco al treno (The 15:17 to Paris) (2018), Il corriere – The Mule (The Mule) (2018), Richard Jewell (2019) – eppure, forse per caso, ci mostrò definitivamente come l’introversione e i silenzi senza fronzoli di una serie emblematica di personaggi, interpretati nel corso della sua lunghissima carriera, facevano parte di una determinata sensibilità o ideologia di base, in fondo quella della frontiera americana, come, nel 1893, ci insegnava lo storico Frederick Jackson Turner, secondo il quale l’origine delle caratteristiche libertarie, democratiche, innovative, e tuttavia violente e peculiari del carattere nordamericano, fossero state rappresentate, sotto varie forme, dal far west.
Il valore in sé di una produzione d’autore
Ma tutto questo non sia in nessun modo visto ora come mero metro del valore dell’opera clintiana, quanto come un discorso non strettamente cinematografico su una vicenda umana e autoriale lunga quasi un secolo. La vicenda di Clint e del suo americano medio colto con la stessa elementarità di narrazione che poi, da autore (da autore “adulto”), avrebbe magnificamente utilizzato per i suoi film più riusciti, anche grazie a una scrittura o una direzione della macchina da presa mai eccessivamente didattici, persino di fronte a qualche inevitabile cedimento alla vecchia retorica americana del Paese che nutre, in sé, contemporaneamente, il male e i suoi stessi anticorpi.
Go ahead Clint, make again our age!