Su Youtube è disponibile, a questo link, Fellini Satyricon, all’estero semplicemente noto come Satyricon, è un film del 1969, co-scritto e diretto da Federico Fellini, liberamente tratto dall’omonima opera dello scrittore latino Petronio Arbitro. Il film girato da Fellini non è una trasposizione letterale del romanzo originale di Petronio. Esistono infatti numerose differenze tra le due opere. Tra le principali modifiche apportate dal regista al testo originario, c’è l’aggiunta dell’episodio dell’oracolo ermafrodita, che non è presente in Petronio. Nel 1970 il film vinse quattro Nastri d’Argento (Miglior attore non protagonista a Fanfulla, Migliore fotografia a colori a Giuseppe Rotunno, Miglior scenografia a Danilo Donati e Luigi Scaccianoce, Migliori costumi a Danilo Donati) e Fellini fu candidato all’Oscar come Miglior regista. Con Martin Potter, Hiram Keller, Max Born, Salvo Randone, Lucia Bosè, Alain Cuny, Mario Romagnoli, Capucine, Fanfulla, Donyale Luna.
Sinossi
Nella Roma di Nerone due giovani scioperati, Encolpio e Ascilto, passano attraverso avventure e dissolutezze d’ogni genere inseguendo il bel Gitone, del quale si contendono i favori. Tra i personaggi che incontrano vi sono l’attore Vernacchio, l’Ermafrodito, il Minotauro, il liberto arricchito Trimalcione e il poeta Eumolpo, in una storia d’iniziazione dall’esito tragico.
Fellini Satyricon (1969), all’interno della filmografia del regista riminese, è uno dei titoli più audaci, nella sua rielaborazione cinematografica dei frammenti del testo del latino Petronio Arbitro, con uno sperimentalismo narrativo volto a stabilire, con sofisticati rimaneggiamenti e tocchi surreali, parallelismi tra la decadenza della Roma imperiale e quella della società contemporanea.
Accolto all’epoca della sua uscita dalla stampa e anche al pubblico in maniera controversa (in un articolo apparso su La Stampa del 10 maggio 1969, Giulietta Masina intervenne in difesa del film e del marito accusato di aver girato “inimmaginabili oscenità”), il film (co-sceneggiato con Bernardino Zapponi) resta una grande opera d’arte, in cui Federico Fellini indaga l’inconscio collettivo presentando un itinerario picaresco, ove lo spettatore è invitato a perdersi, stupirsi, sorridere, “non capire”, turbarsi in un “magma” di situazioni che indagano sulle contraddizioni dell’animo umano, immutabili attraverso il tempo.
Numerose sono le scene madri, di notevole ricchezza figurativa, tra le quali citiamo quella della cena di Trimalcione (interpretato da un vero oste romano, Mario Romagnoli detto “il Moro”), gli episodi della villa dei suicidi, dell’oracolo ermafrodita e del Minotauro, nonché la sequenza dell’addio alla vita del poeta Eumolpo (un grandissimo Salvo Randone).
Impianto figurativo eccezionale per una delle opere più complesse e intellettuali del maestro riminese. Fellini fonde in un’orgia onirica surrealtà e classicità, sfarzosità e mitologia. Un viaggio all’interno della mente angosciata di un antico romano con suggestioni della modernità. Il regista si proietta e proietta gli spettatori all’interno del mondo classico, un mondo destinato ormai a una fine disastrosa in una mondanità che ha raggiunto il suo apice, un mondo al crepuscolo dove l’arte, fulcro di un passato glorioso, è stata sostituita dal denaro e dal lusso, una critica che poi si rispecchia sulla nostra contemporaneità e sul vuoto culturale che si è diffuso ai nostri giorni in un eterno ritorno dell’errore umano. Il finale poetico è la prova della grandezza del regista che con un espediente originale rende l’opera incompiuta simbolo della drammatica provvisorietà della vita e dell’arte.