«Ancora Iran. Dopo “Donne senza uomini”, “I gatti persiani” e “About Elly”, continua il filone di quella cinematografia iraniana che, da anni, rivendica a gran voce una maggiore quota di libertà in un paese da troppo tempo impantanato in uno stato di repressione culturale, politica e umana, davvero insostenibile».
Ancora Iran. Dopo Donne senza uomini, I gatti persiani e About Elly, continua il filone di quella cinematografia iraniana che, da anni, rivendica a gran voce una maggiore quota di libertà in un paese da troppo tempo impantanato in uno stato di repressione culturale, politica e umana, davvero insostenibile.
In Dog sweat, dell’esordiente Hossein Keshavarz, assistiamo a differenti storie, in cui il denominatore comune è la ricerca della realizzazione personale di alcuni giovani a Teheran: una femminista tenta la propria strada, ingaggiando una storia clandestina con un uomo sposato; due ragazzi, conosciutisi da poco, cercano un luogo dove potersi amare indisturbati; un omosessuale è costretto a rifugiarsi sotto la copertura di un matrimonio di facciata; una ragazza, per il solo fatto di voler intraprendere la carriera di cantante, si espone a rischi enormi.
Girato in digitale e soprattutto in stato di totale clandestinità, a ridosso delle elezioni del 2009, Dog sweat è l’ennesima testimonianza di come in Iran stia sorgendo una nuova generazione ansiosa di liberarsi dal giogo di un regime anacronistico e ottuso, e tenacemente impegnata a denunciarne le malefatte. La Rivoluzione del 1979 è stata un’altra delle tante iatture provocate dall’esanime alfiere dell’ordine imperiale (USA), uno pseudo evento che, lungi dal produrre gli effetti di liberazione auspicati, ha catapultato il paese in uno stato di oscurantismo medievale.
Testimoniare è uno dei compiti che definisce ontologicamente il cinema e le sue possibilità. Il rischio è che la sovra esposizione del problema iraniano provochi assuefazione presso coloro che ne seguono le sorti. Ma è un rischio che va corso. Si, repetita iuvant.
Luca Biscontini
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