Un tranquillo week-end di paura” (1972) ambientato nelle montagne veronesi. L’idea alla base di “Orce” è simile al film di John Boorman, sebbene se ne distacchi nella pratica, perché il secondo cortometraggio di Diego Carli mescola tradizione, violenza e superstizione scavando oltre quell’imprinting rudimentale e d’intrattenimento appartenente al genere horror.
Carli dirige su soggetto di Paolo Rozzi un racconto che si spira al cinema italiano degli anni 70/80 e ne riprende i richiami fantastici. La storia racconta di un passato nefasto, in cui un essere deforme si nutriva degli abitanti della Lessinia. In rivolta, impugnando forconi e fiaccole lo rincorrono nel suo covo, uccidendolo con la stessa ferocia con cui lui aveva ucciso le figlie di un contadino. Passano i secoli, fino ai giorni nostri. Una famiglia si addentra in quelle montagne per passare un week-end di puro relax, contravvenendo alla volontà di un contadino del luogo. Così, loro malgrado, si imbatteranno nella specie del cosiddetto Orce (‘Orco’ in lingua cimbra) che, dopotutto, non sembra essersi estinta. Il corto si fregia di un cast di giovani esordienti (Giulia Turrini, Michele Argiolas e Laura Cesaro), affiancati da adulti provenienti dalle scene teatrali locali (Roberto Vandelli, Nicola Rossi). La regia, seppur con qualche tentennamento, coordina bene il linguaggio cinematografico in un contesto surreale, molto spesso senza ricorrere al solo fattore sorpresa, ma puntando molto sulla suspance. Alla fine le immagini coinvolgono, soprattutto grazie alle musiche di Emanuele Zanfretta e Anna Veronese che riesumano il folklore popolare.
Un’attenta scelta delle location e l’apporto alla fotografia di Davide Pachera hanno inoltre contribuito alla creazione di un’atmosfera suggestiva, sospesa tra realtà e fantasia. Pur avaro di reali momenti impressionanti, “Orce” rimane un cortometraggio professionale e ben diretto, che funge da rappresentante indipendente di un cinema vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto, oggi tristemente scomparso giacché sommerso dall’ovvietà commerciale.
Vito Sugameli