Era un’impresa da far tremare i polsi e distruggere i colossi più imponenti. Watchmen è un graphic novel (diviso originariamente in 12 episodi mensili, poi più e più volte ristampato in formato tpb) a firma Alan Moore e Dave Gibbons: pubblicato originariamente nel 1986, non era solo una intensa testimonianza delle angosce contemporanee ma sempre attuali e urgenti, come il controllo delle masse, ma anche e soprattutto un’opera fondamentale di decostruzione del superuomo. L’archetipo fumettistico, declinato secondo i paradigmi teorici di Nietzsche sull’Ubermensch, viene presentato nel suo aspetto più umano e quotidiano, con problemi etici e personali, con uso massiccio di simboli e simbolismi, dialoghi da interpretare e una meta narrazione raffinata e lucidissima.
Watchmen è ad oggi l’unico fumetto ad aver ricevuto il Premio Hugo e ad essere stato inserito nella lista del Time dei cento migliori romanzi in lingua inglese: ed è per questo che non solo ha influenzato indissolubilmente la narrazione superomistica successiva, ma è diventato pietra angolare del medium e non solo. La DC Comics, casa editrice originaria, ha cercato più volte di replicarne il successo (anche andando contro il suo creatore, il geniale Moore, notoriamente spigoloso) senza riuscirci mai completamente: proprio per la natura totemica ed enigmatica dell’opera stessa, impenetrabile nei suoi nuclei più centrali quanto apertissima ad ogni interpretazione e declinazione esistenziale. Anche il film per il grande schermo, diretto da Zack Snyder, generò non poche polemiche e divise la critica e il pubblico, perché pur se riuscito come opera cinematografica si discostava in più punti dalla storia e dalle sue infinite diramazioni
Quando si seppe allora che Damon Lindelof voleva trarne una serie tv prodotta da HBO l’attesa iniziò a salire diventando ben presto febbrile: ad oggi, con la messa in onda dei primi due episodi su Sky Atlantic, la scommessa si può dire vinta.
Il Watchmen di Lindelof è una specie di contorto sequel dell’opera originale: e già nel suo sparigliare le carte sul piano delle coordinate spaziotemporali sorpassa un ostacolo non da poco, quello di confrontarsi con lo stesso parco personaggi per saperne e poterne raccontare la continuazione. L’intelligenza dello script sta però nel suo aver saputo infiltrarsi con intelligenza nei riverberi logici e morali del racconto di partenza, ma soprattutto vince con il presupposto di non voler soppiantare né affiancare l’impatto culturale che il Watchmen di Moore ha avuto sulla socialità e sulla cultura di massa. Su queste premesse, il primo episodio esplode con un botto, senza nessuno sconto per l’apocalisse umana che mette in scena e ai rischi dell’adattamento, con coraggio e soprattutto consapevolezza, perché non adatta, bensì interpreta.
Si insinua quindi nel magma ribollente dei sottotesti politici e li rilegge come se dovessero parlare del nostro presente (ma sempre con un occhio al passato): e apre la storia a Tulsa, nel 1921, presentando disordini razziali che devastano la città, concentrandosi su un bambino afroamericano, l’unico sopravvissuto ad una strage che riesce a fuggire, sbalzando poi i parametri narrativi nel futuro, il nostro presente, e presentando ancora una volta un’ucronia. It’s Summer And We’re Running Out Of Ice dà un contesto, presenta i caratteri e getta sul pubblico un’ombra di angoscia e frenesia immergendolo fino al collo in un’America preda ancora di disordini razziali, divisa tra poliziotti in maschera e vigilanti legalizzati che lottano contro una recrudescenza di antisemitismo rappresentata da un gruppo di persone che vestono la maschera di Rorschach, simbolo dell’anarchia più disperata, folle e incontrollabile. Tutti gli spunti di Moore (come l’odio razziale che serpeggiava larvatamente nei 12 episodi del 1986) vengono allora rimasticati e innestati su un racconto di ampissimo respiro dove Ozymandias (che ha le fattezze spaventosamente glaciali di Jeremy Irons) è il solo trait d’union narrativo tra fumetto e serie. Quello di Lindelof è un mondo senza speranza dove tutti hanno paura e devono nascondersi dietro una maschera, un sottobosco oscuro e ingannevole partecipe di un sentimento di disillusione che spinge tutti contro tutti: e l’autore continua il suo discorso, iniziato con Lost e proseguito con The Leftovers, per mettere in scena tutte le angosce per un presente inconoscibile, e per un’immanenza di misteriosa inespugnabilità, dove solo venendo a patti con la propria perdita si riesce a sopravvivere per continuare a lottare.
La regia è elegante (lontana dalla furia estetizzante del film di Snyder), gli interpreti centrati, tutto tenuto insieme dalle note buie di Trent Reznor e Atticus Ross che fanno il resto, in un panorama di disturbante, eclatante attualità esistenziale. Folgorante.