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Sèraphine

«Premiato con ben sette César, “Séraphine”, l’ultimo film di Martin Provost, ha riscosso in Francia un successo straordinario, racimolando quasi un milione di spettatori».

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Premiato con ben sette César, Séraphine, l’ultimo film di Martin Provost, ha riscosso in Francia un successo straordinario, racimolando quasi un milione di spettatori.

Séraphine de Senlis (Yolande Moreau), modesta governante vissuta tra ottocento e novecento, dividendosi tra Chantilly e Parigi, divenne, grazie all’incontro con il critico d’arte e mecenate Whihelm Ulde (Ulrich Tukur), una brillante pittrice.

Provost, senza cedere al clichè del film biografico, si concentra su una fase saliente della vita della protagonista, mettendo in scena una rappresentazione asciutta dal punto di vista della recitazione, evitando l’apologia del personaggio, e facendo emergere, in tal modo, il contesto storico e  relazionale all’interno del quale preso corpo l’opera di Sèraphine.

Il misticismo di questa donna mite e attempata è ciò a partire da cui si sviluppò un’intensa creatività che si tradusse in nature morte ‘molto vivaci’, ricche di colore e movimento, rivelatrici di desideri repressi e mai sopiti. Ma, si sa, l’importante è che il desiderio scorra, qualunque sia la direzione intrapresa, sia pure quella dell’immobilità di una tela bianca.

Interessante è l’accenno che Séraphine, durante il film, fa a Teresa Davila, una delle più grandi figure mistiche della storia, perché l’estasi religiosa è una metafora che eccede l’atto sessuale e innesca un processo di ‘abbandono’ in cui la perdita della coscienza priva l’artista della propria soggettività; in tal modo si agevola il passaggio dalla ridondanza della rappresentazione all’essenzialità della ‘presentazione’, varcando la soglia che divide l’essere dal suo apparire.

Purtroppo il delirio di Sèraphine si scontrò con ‘l’apparato disciplinare’ della sua epoca e, come il folle di Marradi, il poeta Dino Campana, la nostra protagonista finì in un manicomio, dove rimase fino alla morte.

Probabilmente il punto debole del film è la dilatazione dei tempi, che non aggiunge molto alla narrazione, anzi ne indebolisce la forza. Ne consigliamo, comunque, la visione, innanzitutto per conoscere l’opera di un’artista (da noi) poco nota, e poi per confrontarsi (di nuovo) con la questione della salute mentale (repetita iuvant).

Luca Biscontini

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