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Interviews

Venezia 76: Effetto Domino. Intervista a Nicoletta Maragno (Sconfini)

A fianco di Giorgio Strehler per più di un decennio, lavorando come attrice in molti dei suoi spettacoli, Nicoletta Maragno ha avuto modo di distinguersi anche  nel cinema, diretta da autori come Silvio Soldini, Carlo Mazzacurati e, oggi, da Alessandro Rossetto, che in Effetto Domino l'ha voluta nel ruolo di una donna forte ma pronta ad accogliere la crisi della controparte maschile. A lei abbiamo chiesto di raccontarci il suo personaggio

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Rossetto è un regista molto interessato alla dimensione esistenziale dei personaggi femminili. Se è vero che in Effetto Domino le donne hanno meno spazio rispetto a Piccola Patria, l’essere contraltare psicologico e morale del protagonista le rende comunque importanti nell’economia del racconto.

Si, molto. Le donne, e soprattutto Silvana – che è il mio personaggio -,  sono depositarie in parte della pietas in un mondo stritolante e stritolato in cui tra l’altro c’è la non accettazione della fine e, dunque, la rimozione della morte. Si specula sul desiderio di immortalità delle persone, soprattutto degli anziani che sono i primi a non voler morire. In generale, nel film c’è la non accettazione della caduta e, quindi, della crisi che in fondo è una specie di morte. In questo caso, le donne appaiono le più resilienti. Al termine del film il mio personaggio ci pone di fronte a un finale molto aperto rispetto alla relazione con il protagonista.

Di quello che hai detto ne sono testimonianza due scene che ti vedono protagonista. Nella prima, spingi Rampazzo a guardarsi dentro e a fare i conti con un fallimento che lui non vuole ammettere, perché è solo con te che riesce a smettere di dire “siamo in grado di farcela”. Nell’altra, assistiamo a uno scontro molto forte tra Silvana e Rampazzo, che però si conclude con l’immagine della donna pronta a confortare il dolore del marito.

Si,  sono io che resto, ed è esattamente questa la dimensione femminile profondamente umana che in qualche modo dà la possibilità di resistere alla caduta, dunque, di far fronte alla fine. Le persone di fronte alla morte o desiderano l’impotenza o cadono, preferiscono morire, si uccidono. Mentre la resilienza nei confronti della fine significa anche accettare profondamente la vita per quello che è, fine compresa, morte compresa.

Da questo punto di vista, voi proponete un modello femminile un po’ diverso da quello dominante. Il tuo personaggio lo è nella pietas che le permette di riconoscere e accogliere gli altri e, in particolare, la controparte maschile. Il contrario della donna individualista e vendicatrice che oggi va di moda nel cinema soprattutto americano.

Abbiamo discusso molto di questo con Alessandro, lavorando sui personaggi e sulle dinamiche familiari. Ci siamo chiusi in un hotel e ci siamo confrontati per un tempo molto lungo. Per quanto riguarda Silvana all’inizio Alessandro puntava sulla sua capacità di vedere oltre e quindi di dire a suo marito “smetea de far el paron  veneto“, per invitarlo a delegare le competenze ai suoi uomini e alle figlie. Nonostante ciò, Silvana è una donna che poi accetta l’autorità del marito. Ed è proprio su questo filo di lana che ho lavorato, cercando di proporre ad Alessandro per la stessa scena tagli e temperature ogni volta nuove in cui alcune volte apparivo più determinata, altre remissiva, come lo è una donna che vede oltre ma resta in silenzio. La scelta di questa seconda visione è stata di Alessandro, probabilmente perché voleva che la dimensione umana e familiare fosse depositata all’interno della figura femminile, almeno credo. Ho girato varie cose in diverse versioni proprio perché volevo dargli la possibilità di pescare in questo cesto quello che più era funzionale per la dinamica del film

Ho trovato il tuo personaggio straordinariamente forte ma allo stesso tempo incredibilmente accogliente. Due aspetti difficili da far convivere davanti alla macchina da presa.

Infatti, è stato molto difficile lavorare su questo crinale e debbo dire che avendo offerto ad Alessandro varie versioni dello stesso personaggio è stata la sua abilità a comporre il ritratto che voleva. Lui mi ha fatto studiare su A Woman Under Influence di John Cassavetes con Gena Rowlands, dicendomi che quella era l’idea di donna a cui si voleva rifare. Anche se Silvana non è così stralunata e fuori di sé come il personaggio della Rowlands, ciò che gli interessava di lei era la dimensione di delicatezza e di fragilità e i suoi sguardi silenziosi. Tanto è vero che grazie ad Alessandro nel film i silenzi parlano tantissimo. Noi eravamo pieni del personaggio e, quindi, qualunque cosa facessimo e in qualunque momento venissimo ripresi eravamo quella roba là.

Nel film i personaggi femminili non sono molto presenti, ma voi riuscite comunque a farle entrare nella storia e soprattutto nella memoria dello spettatore.

Abbiamo agito molto sul terreno, facendo un grosso lavoro di costruzione dei personaggi e delle dinamiche familiari. Eravamo così tanto dentro di loro che talvolta Rossetto, anche se eravamo fuori scena, apriva la macchina da presa  per coglierci nella realtà più assoluta. Il linguaggio rossettiano è tale per cui eravamo sempre pronti ad essere il nostro alter ego. Questo grazie al grosso lavoro fatto sui personaggi.

Una delle caratteristiche di Alessandro Rossetto è quella di riuscire a far recitare gli attori in una maniera che raramente si vede sullo schermo. I corpi entrano con un’energia e una ferinità che cattura i sensi. Essendo tu anche un’insegnante di recitazione come lo spiegheresti il suo metodo?

Ho lavorato come coach anche con le ragazze, nel senso che dietro la macchina da presa ho fatto da coach – a fianco di Alessandro – a Maria e Roberta. Detto questo, Alessandro prova, discute esamina, fa improvvisare, fino a quando non raggiunge l’attimo dal quale trae spunto per poter poi farne materiale per il suo lavoro. Questo processo di costruzione interna avviene magari anche mesi prima. Ti ho detto che ci ha chiusi in hotel tre giorni per fare proprio questo. Per me che sono una strehleriana d’animo si tratta di un momento fondamentale, in cui l’attore si costruisce per poi lasciarsi andare ed essere in ogni momento il personaggio.

Alla Cassavetes, no?

Certo! Ed è un po’ lo stile rossettiano.

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