Grosso guaio a Chinatown (Big Trouble in Little China), un film del 1986 diretto da John Carpenter; è interpretato da Kurt Russell e Kim Cattrall, e mescola elementi da commedia con quelli delle pellicole di arti marziali. Nell’idea originale degli sceneggiatori, il film avrebbe dovuto essere ambientato nel vecchio West e avere per protagonista il classico cowboy senza passato che arriva in città e libera la ragazza dalle grinfie del malvagio stregone Lo Pan. Riportata ai giorni nostri e condita di elementi orientaleggianti inediti per il cinema del periodo, la pellicola si è rivelata un insuccesso commerciale incassando negli USA solo 11 milioni di dollari, forse anche per via della strategia pubblicitaria utilizzata dalla produzione (che diede maggior risalto alla promozione di Aliens – Scontro finale, uscito nelle sale sedici giorni dopo). In seguito è diventato una pellicola di culto grazie al suo successo in videocassetta e ai passaggi televisivi.
Sinossi
Jack Burton, camionista, accompagna l’amico Wang Chi all’aeroporto a prendere la fidanzata Miao Yin, in arrivo dalla Cina. La donna viene rapita da una setta di fanatici capeggiata dal diabolico Lo Pan. Per salvarla, Jack e Wang Chi sono addirittura costretti a combattere contro i demoni cinesi. Commedia d’azione adrenalinica, che prende in giro i film di kung fu e certo fantasy hongkonghese.
In questo film, la realtà inquieta e magica di John Carpenter si tinge, con ironia, di un sontuoso colore asiatico. Il regista trova nelle arti marziali quel corposo mix di leggenda e azione che è l’essenza primigenia della fantascienza. Questa non è, per lui, la favola degli esseri alieni e dei viaggi interstellari, bensì un bubbone di fantasia cresciuto sul nostro pianeta, destinato ad esplodere in una fantasmagoria di allucinazioni, diffondendo uno spiritismo che fa le scintille. In quest’opera la mitologia cinese è servita come un pacchetto infiocchettato, o un gioiello tintinnante; è come un involtino primavera insaporito di filosofia, oppure un vaso Ming riempito di un fluido divinatorio. La storia è una sorta di mahjong a metà strada tra l’inferno dantesco e il videogame, in cui la tradizione si fa spettacolo ad uso dei non iniziati: l’oriente e l’occidente si fondono qui nel solito compromesso commerciale, nel quale la cultura di esportazione va incontro al turismo di massa. Chinatown è il microcosmo simbolo di questa ambigua unione: la democratica koiné cino-americana della superficie nasconde, nelle viscere del sottosuolo, un atavico e mostruoso scontro tra mondi inconciliabili. Grosso guaio a Chinatown è un film cinematograficamente molto denso, in cui il succedersi delle inquadrature ha la caleidoscopica variabilità degli sprazzi di sogno; la sceneggiatura, più che una successione di momenti narrativi, è un’animata galleria di suggestioni ottiche. Il racconto, pur nella sua severa coerenza, si evolve come un fuoco d’artificio che continua a ricaricarsi di energia luminosa, e la cui unica estetica è la (dis)armonia di una scoppiettante creatività visionaria.