Aumenta le fila della sua galleria di personaggi marginali Bonifacio Angius, mettendo in scena, con Destino, il ritratto dell’ennesimo sconfitto, dell’ennesimo perdente in guerra contro tutto e tutti, in particolar modo con se stesso. Un filo tematico, quello dell’inettitudine e del disagio sociale ed esistenziale che, da Perfidia a Ovunque proteggimi, percorre tutta la filmografia del regista sardo e che in questo cortometraggio, presentato alla Settima Internazionale della Critica di Venezia 76, trova il suo (momentaneo) punto di arrivo, la summa perfetta ed essenziale di un’intera poetica.
È quasi una parabola, del resto, la piccola vicenda scritta, diretta e interpretata da Angius stesso, che qui presta volto e voce a un personaggio in fuga da un destino già scritto, da un Male presente tanto fuori quanto, soprattutto, dentro di sé. Riducendo il proprio cinema a una manciata di personaggi e coordinate, dove persino la periferia diviene un luogo dell’anima, un limbo desertico e ostile abitato da individui disorientati o irrimediabilmente persi in se stessi, il regista condensa così, in pochi minuti, il malessere e il senso di alienazione di un intero (sotto)mondo perduto in un dramma che sa di predestinazione, ma che, in realtà, non è altro che l’eterna lotta contro le proprie mancanze, la propria rassegnazione, la propria diversità. Una realtà che Angius restituisce, attraverso i suoi primi piani e i suoi lunghi silenzi, con la consueta carica di empatia, con la forza di uno sguardo capace di dare dignità anche agli ultimi, anche a chi una dignità pensa di non averla mai avuta o meritata.