Premio alla Migliore Regia nella selezione di corti italiani della Settimana Internazionale della Critica di Venezia 75, Gagarin, mi mancherai (2018) di Domenico De Orsi è un viaggio fatto di percezioni tra il “senso e non senso” che si allontana tantissimo dagli schemi tradizionali dei film già visti. Quella raccontata da De Orsi non è soltanto la storia di un uomo caduto dal cielo che piomba sulla terra e dell’unica coppia che sopravvive all’estinzione di massa, ma soprattutto un viaggio nell’onirico in cui realtà e immaginario si incontrano. La frase finale – A mia madre quando sogna – racchiude tutto il senso del corto: uno scorrere di immagini come in un sogno a cui lo spettatore è convocato a dare un senso complessivo. È ciò che noi vogliamo: svegliarci e dare molte volte un senso a immagini, suoni, rumori, colori che spesso un senso non hanno. Così ci ritroviamo davanti un grande pavimento con tanti pezzi di puzzle sparsi per terra. Sta a noi cercare i pezzi simili, quelli che si incastrano meglio creando una storia di senso compiuto. Il sogno però non è una storia, è un insieme di esperienze, di visioni passate, traumi, ricordi, ciò che meglio si nasconde nel nostro inconscio.
Gagarin, mi mancherai, fra tanti puzzle possibili, potrebbe essere un progetto visionario del protagonista, un incontro fra il futuro delle navicelle e il passato delle caverne, una susseguirsi di immagini, e, soprattutto, di suoni che ne aumentano la potenza filmica. Così, il canto del gallo, la carne appena tagliata, il respiro e i passi dell’uomo piombato sulla terra, amplificano l’assenza di una civiltà che non c’è più, di un mondo arido fotografato privo di vita. La mancanza dei dialoghi, della “Langue”, come viene definita dal linguista Ferdinand de Saussure, che da sempre contraddistingue il genere umano, contrassegna gran parte del corto e la breve battuta finale della protagonista non può che aumentare la potenza mortifera della parola, un concetto appartenente allo psicoanalista francese Jacques Lacan. Ed è per mezzo del simbolico, del linguaggio che si genera il desiderio, che lascia un vuoto incolmabile, causa ed effetto della trascendenza dell’animale umano.
Anthony De Rosa