Servirsi del pugilato e delle sue figure manicheamente divise tra vincitori e vinti – spesso e volentieri privilegiando questi ultimi e elevandoli a personaggi tragici – per farne una metafora della vita, è una pratica vecchia (quasi) quanto il cinema. Stasera ho vinto anch’io, Il campione e Toro scatenato sono solo alcuni degli esempi di grandi perdenti della nobile arte che nel corso dei decenni si sono ritagliati un ruolo di rilievo nelle nostre narrazioni, uomini in cerca di riscatto, spesso a fine a carriera, incapaci di arrendersi e, per questo, destinati a cadere ancora più a fondo.
Dovrebbe appartenere a questa nutrita e per certi versi un po’ logorata famiglia (sebbene qualche timido tentativo venga ancora fatto: date un’occhiata su Netflix a Sparring, con Mathieu Kassovitz) anche Sangue nella bocca, produzione italo-argentina firmata da Hernàn Belòn. Dovrebbe, perché nella parabola discendente di Ramòn Alvia (Leonardo Sbaraglia, già visto in Dolor y gloria di Almodóvar), detto El Tigre, ex campione in crisi di mezza età travolto dalla passione e dall’amore tossico e violento per la giovane e bellissima Débora (Eva De Dominici), anch’essa pugile, pare esserci tutto fuorché la boxe e la sua retorica della sconfitta. È proprio il pugilato, infatti, a scivolare in secondo piano nella pellicola di Belòn, mentre Ramòn si aggrappa alla vita e alla rabbia della sua giovane pupilla/amante e le (poche) concitate e adrenaliniche sequenze sul ring lasciano il posto a scene dove la passione esplode attraverso un erotismo vuoto e patinato, in un’esaltazione del corpo spesso e volentieri fine a se stessa.
Sorretto da una sceneggiatura inconsistente che, quando si fa sentire, pare quasi più vicina a È nata una stella che a un film sportivo, o che, al limite, ripropone stancamente situazioni e personaggi stereotipati (l’allenatore pieno di buon senso, il manager disonesto) e senza il minimo approfondimento psicologico, Sangue nella bocca perde così qualsiasi pretesa di empatia, incapace com’è di innalzare il suo protagonista a figura tragica e malinconica a tutto tondo, lasciandolo, invece, solo e in balia dell’attrazione irrazionale per una donna instabile e problematica. È così che, inseguendo un’obiettività che vorrebbe garantire più realismo ma che non fa altro che estraniarsi dalla vicenda, il film smarrisce ogni capacità di coinvolgimento, finendo col fare di questa discesa nell’ossessione e nell’autodistruzione qualcosa ormai incapace di toccarci, di farci sentire la sofferenza di un personaggio svuotato, sgradevole e dimenticabile, un individuo senza nemmeno più la statura di un vero campione, di un vero pugile. Figuriamoci di un vero perdente.