Occhi mangiati, teschi, sangue, pistole. E ancora: tarocchi, luci al neon, coltelli, spade giapponesi. Il tutto contaminato da sprazzi del cinema di Friedkin, Jodorowsky, Anger, Lynch. Si potrebbe andare avanti all’infinito a fare elenchi di immagini o suggestioni ricorrenti presenti nella prima serie firmata Nicolas Winding Refn. D’altronde, da Too Old To Die Young, “film da 13 ore” capace di condensare in sé tutte le influenze e le ossessioni del suo autore, non ci si potrebbe aspettare altro, tanto meno l’ennesima serie tradizionale. Perché, in quel flusso continuo di immagini e situazioni dilatate all’inverosimile e ripetute allo sfinimento – un loop che ricorda più le installazioni da videoarte che un prodotto narrativo – c’è l’essenza stessa di una non-serie che della serialità (ma anche del cinema) ha dimenticato consapevolmente e platealmente ritmo e struttura, irridendone le logiche di fruizione, il respiro e il senso.
Cos’è allora Too Old To Die Young? Se si ascoltano i detrattori, il trionfo narcisistico di un autore da sempre chiuso nel suo immaginario e nella sua estetica derivativa e brutale. Per tutti gli altri (perché con Refn non esistono vie di mezzo), il vertice della sua produzione, il punto di arrivo di una poetica capace di travalicare generi, supporti e confini. Quello che è certo, al di là dei gusti personali, è che nei dieci episodi che si susseguono, solenni e soporiferi, sul piccolo schermo, c’è tutto l’immaginario del regista di Solo Dio perdona, tutti i suoi tic e temi ricorrenti, ma, soprattutto, c’è una solida e ben chiara idea di cinema e, per riflesso, del mondo. Un mondo che non può che essere agli sgoccioli, quello raccontato dalla serie di Refn, finestra su un’Apocalisse che è prima di tutto scontro di civiltà: quella statunitense e occidentale, ormai decadente e degenerata, e quella messicana dei cartelli della droga, brutale, spietata e ferina.
È proprio qui, tra apatici e corrotti agenti di polizia e sacerdotesse della morte pronte a mietere nuove vittime, nella più classica e tremenda opposizione tra Natura e Cultura, che si gioca la fine di un Paese e di un mondo dominati dall’orrore, dalla violenza e dall’ignoranza, tutti temi cari a un regista che qui porta il conflitto a una dimensione mai così astratta e contemplativa, tra immagini pittoriche, estenuanti piani-sequenza e personaggi grotteschi e bidimensionali per cui è impossibile provare empatia, specchio di un prodotto distante e respingente che è puro trionfo estetico, pura esaltazione dell’atto voyeuristico del guardare. Prendere o lasciare.