Smetto quando voglio è un film del 2014 diretto da Sydney Sibilia. È la storia di un gruppo di brillanti ricercatori universitari che tentano di uscire dall’impasse lavorativa ed esistenziale della precarietà cronica, producendo e spacciando smart drugs. Il film è il primo di una trilogia comprendente i sequel Smetto quando voglio – Masterclass e Smetto quando voglio – Ad honorem, entrambi usciti nelle sale cinematografiche italiane nel 2017. Il film è stato distribuito in Italia a partire dal 6 febbraio 2014 da 01 Distribution in 270 copie, per un incasso totale di 4,5 milioni di euro. Smetto quando voglio ha ottenuto quattro candidature e vinto un premio ai Nastri d’Argento e dieci candidature a David di Donatello. Con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo.
Sinossi
Pietro Zinni (Edoardo Leo), ricercatore e genio trentasettenne, perde il posto di lavoro a causa dei tagli all’università. Per sopravvivere ha un’idea tanto semplice quanto drammatica: mettere insieme una banda criminale, reclutando i migliori ex colleghi finiti a lavorare chi benzinaio o come lavapiatti e chi a giocare a poker. Contando su macroeconomia, neurobiologia, antropologia, lettere classiche e archeologia, la banda ha un successo immediato, le cui conseguenze – soldi, potere e donne – saranno però difficili da gestire.
La recensione di Taxi Drivers (Francesco Del Grosso)
C’era bisogno di un regista esordiente classe 1981 come Sydney Sibilia e della sua riuscitissima opera prima dal titolo Smetto quando voglio, per gettare finalmente una bella ventata di aria fresca sull’anemica commedia made in Italy? A giudicare dagli esiti pare proprio di si. I più che incoraggianti riscontri al botteghino ottenuti dalle pellicole del suddetto genere negli ultimi anni, che in termini strettamente economici hanno quantomeno tenuto a galla l’inesistente “industria” cinematografica nostrana nonostante l’indubbia qualità espressa dalla maggior parte di esse, per quanto ci riguarda non sono per niente sufficienti. Questo perché, ripensando alle tante commedie battenti bandiera tricolore apparse nelle sale nel recente passato, salta subito all’occhio la mancanza di originalità nei plot, il disegno approssimativo dei personaggi che li animano, ma soprattutto l’incapacità dei registi e degli sceneggiatori di turno di riportare sugli schermi i cosiddetti tempi comici. Quest’ultimi, in particolare, rappresentano uno degli elementi cardine della commedia, di fatto determinante per la sua riuscita. Ed è proprio su di essi che il regista salernitano costruisce l’architettura narrativa e drammaturgica di Smetto quando voglio, nei cinema con 01 Distribution a partire dal 6 febbraio in 250 copie.
I tempi comici, infatti, diventano l’arma in più nelle mani di Sibilia per scardinare le difese immunitarie dello spettatore più scettico, costretto sin dalle prime scene ad alzare bandiera bianca, lasciandosi trascinare da uno humour nero travolgente che rifiuta il politically correct impossessandosi in tutto e per tutto dei dialoghi, dei pensieri e delle azioni dei personaggi, delle dinamiche individuali e corali. Nel farlo si decide intelligentemente di non scomodare i bei tempi che furono, anche se qualche rimando a film indimenticabili come I soliti ignoti o La banda degli onesti lo si può intravedere, piuttosto si preferisce strizzare l’occhio a certe commedie a stelle e strisce alla Ocean’s Eleven o a popolarissime serie per il piccolo schermo come The Big Bang Theory o Breaking Bad, rielaborandone il dna in chiave ultra citazionista e parodistica. Da esse, il cineasta campano riprende stile, immaginario e quel pizzico di follia che non può e non deve mancare. Ne viene fuori uno script calcolato al millimetro, nel quale i singoli personaggi sono sbalzati con brio da una situazione all’altra attraverso una costruzione infallibile e veloce, in un giusto mix di azione, amicizia, amore e disavventure (il)legali.
Il dramma sociale, legato alla crisi economica imperante, al precariato e ai tagli nella ricerca, si tramuta in un espediente comico, che non risparmia però frecciatine scagliate qua e là verso la platea. L’idea è di quelle folgoranti, ma allo stesso tempo di una semplicità disarmante: una banda composta da geniali nerd usa la neurobiologia, il latino classico, l’antropologia e la macroeconomia per infilarsi in uno strano buco legislativo tutto italiano, quello delle smart drugs. In questo modo, serio e faceto si incontrano alla perfezione dando vita ad una tragicommedia esilarante dal forte retrogusto acido, accentuato ancora di più dalle scelte cromatiche sature e ricche di doppie dominanti, tanto nella fotografia quanto nelle scenografie, che consegnano una messa in scena spassosa e fumettistica.