Il tuo curriculum ha delle peculiarità non comuni per un regista italiano: cresci professionalmente a Londra, dove realizzi un programma musicale di grande successo, poi torni in Italia per diventare autore e regista di programmi televisivi e documentari. Questo fino alla serie de I soliti idioti, a partire dalla quale inizia la tua storia di autore cinematografico.
Sono attratto da qualsiasi tipo di linguaggio ed espressione. In Italia mi sono laureato in economia e commercio ma ho sempre avuto la passione del cinema: finiti gli studi sono scappato a Londra per imparare quello che sarebbe diventato il mio mestiere. Lì ho fatto molta gavetta, ho cercato di conoscere più persone possibili e di cimentarmi in opportunità sempre diverse, perché mi rendevo conto che questa era la via migliore per crescere. Tornato in Italia ho lavorato come autore e regista di programmi televisivi e documentari, poi, grazie a I soliti idioti, che era una produzione MTV, è arrivato il cinema. Il programma al quale accennavi nella domanda era un talent show musicale in cui mi sono davvero inventato. Mi trovato a Londra insieme ad amici inglesi e da appassionato di musica, dopo aver saputo che il novanta per cento dei videoclip non andava mai in onda, ho pensato che ci potesse stare un format televisivo in cui potevamo far conoscere almeno il dieci per cento di questo mondo sommerso. Da perfetto sconosciuto ho telefonato ad ITV e, dopo avermi ricevuto nel giro di una settimana, hanno deciso di farmi fare questo programma notturno che ha avuto un successo pazzesco: abbiamo scoperto molti talenti e io mi sono divertito un sacco con la musica. All’epoca non esisteva ancora Youtube, per cui siamo stati davvero in anticipo sui tempi. Un’influenza, quella inglese, che mi sono portato dietro e che si sente anche ne I soliti idioti.
In Italia, a fianco di quella più popolare, si sta facendo largo un tipo di commedia che ruba sempre di più dal cinema d’autore, cosa che peraltro succede anche negli USA con i film dei supereroi. Penso, per esempio, a Daniele Ciprì o alla coppia Bentivoglio e Trinca di Croce e delizia. Al contrario, Scappo a casa punta su uno specialista del genere come Aldo Baglio.
Nonostante il contesto comico dei miei film, l’esperienza londinese mi ha lasciato un approccio più vicino al cinema straniero nel quale gli attori fanno qualsiasi cosa, passando dal ruolo drammatico al comico, al musical, senza venire classificati in base alle loro scelte. In Scappo a casa volevo riprodurre questo tipo di approccio. Con Aldo eravamo d’accordo nel creare un personaggio vicino alla vecchia commedia italiana, con tanto di finale amaro, oramai inesistente nei nostri film. In questo senso, Scappo a casa si avvicina un po’ al cinema classico. Poi, secondo me, recitare a fianco di Jacky Ido, che ha lavorato con Tarantino, e di Fatou N’Diaye, abituata a fare ruoli molto drammatici, ha aiutato Aldo a tirare fuori il meglio dal suo personaggio. Insieme al suo, l’altro ruolo in cui abbiano osato un po’ di più è quello andato ad Angela Finocchiaro, a cui abbiamo fatto fare una sorta di sceriffo cattivo. Nel complesso, il risultato si avvicina comunque al target di cui parlavi.
Tenendo conto di ciò che hai appena detto, ti chiedo cosa significhi per te fare un cinema popolare.
Si tratta di una domanda per me un po’ delicata. Sono arrivato al cinema grazie a I soliti idioti, però se prima di farlo mi avessero chiesto che film avrei voluto girare non sarebbe stato certo quello. Da appassionato di cinema classico e della commedia italiana di una volta ritengo che Scappo a casa mi abbia aiutato ad avvicinarmi a tali modelli. Non per essere snob, ma quando vado al cinema sono sempre in cerca di produzioni straniere per vedere cosa si produce lontano da casa nostra. Mi sembra, infatti, che negli ultimi tempi la commedia italiana tenda a ripetersi, mentre all’estero riesco a trovare cose originali: non solo in America, ma anche nel cinema orientale che amo da morire. I prodotti nuovi e originali mi trasmettono molto entusiasmo. Spero di aver risposto alla domanda.
A proposito di riferimenti: guardando la scena finale del film, quella che in qualche modo viene meno alla regola del lieto fine, con l’espressione di Aldo dietro il vetro del furgone, la prima cosa che viene in mente è la maschera di Alberto Sordi.
E si…mentre giravamo – e non solo in quella scena – parlando con chi mi stava vicino ho più volte detto che in questo film c’era un po’ di Sordi perché comunque lo vedevo in Aldo. Non era un aspetto che ho cercato io, ma è Aldo che ce l’ha fatto trovare, per cui sono contento che tu lo abbia visto: dicendolo gli hai fatto un grande complimento. Tra l’altro, il tono tragicomico calza alla perfezione con il suo modo di stare davanti alla macchina da presa.
Per essere una commedia con Aldo Baglio, Scappo a casa prende le cose abbastanza seriamente. Voglio dire che, nonostante la presenza del comico palermitano serva a stemperare la drammatica degli eventi, le condizioni a cui sono sottoposti il protagonista e i suoi compagni di sventura rimangono comunque molto serie.
Si, perché questo doveva essere un film che nell’ambito di un tema come quello dell’immigrazione aveva il compito di raccontare la crescita di un personaggio chiuso nel suo piccolo mondo fatto di idee negative sugli extra comunitari: un coacervo di pregiudizi e luoghi comuni che, però, nelle difficoltà della sua vicenda, sarà costretto a rivedere anche grazie all’amicizia con Mugandi e all’amore per Babelle. La tragicità di cui parlavi era necessaria per giustificare un cambiamento così drastico; allo stesso tempo mi serviva che la trasformazione fosse leggera e delicata, perché si trattava pur sempre di una commedia. Oggi è difficile non toccare un tema come quello dei fenomeni migratori ma, sinceramente, volevamo raccontare la storia di un cambiamento e di un’amicizia.
Il fatto di ambientare la vicenda al di fuori dei confini nazionali è dipesa dall’utilizzo della struttura on the road o è stato un espediente per collocare razzismo e intolleranza all’interno di una cornice più ampia e, nella fattispecie, europea?
Ma, quello sicuramente. L’idea del film non è mia ma di Aldo e degli sceneggiatori che hanno deciso di fare un film di questo tipo, sostituendo la rotta balcanica a quella mediterranea. L’intenzione era di fare un film on the road che avesse il sapore di un western, genere che, a parte il riferimento a Il buono, il brutto e il cattivo, è presente nel tema del segreto non corrisposto ed era quello a cui ho sempre guardato dopo aver letto la sceneggiatura: la fuga dei protagonisti, il viaggio che ne consegue, l’incontro con i cattivi, ma anche il fienile, i panorami e il personaggio della Finocchiaro che, seppur in maniera tenera, assomiglia allo sceriffo del villaggio, sono i segni di questo intendimento. C’è poi la colonna sonora, nella quale volevo ci fosse un’evoluzione verso suoni che rimandassero al genere in questione, effettuata però in una maniera morbida, per evitare di scadere nella parodia. Secondo me, siamo riusciti a evitarla grazie anche all’apporto di Fabrizio Mancinelli che, tra l’altro, ha diretto l’orchestra di Green Book. Il suo lavoro è stato eccezionale.
Mentre la comicità de I soliti idioti era caricaturale e grottesca e lavorava sulla decostruzione di questi stessi termini, quella di Scappo a casa è molto più tradizionale. Questo scarto cosa ha richiesto in termini di regia?
I soliti idioti arrivavano da un programma televisivo costruito su una serie di gag dissacranti e molto aggressive, pensate per essere efficaci in tempi molto brevi. Nella versione cinematografica non abbiamo fatto altro che ripeterne il format: gli attori erano talmente rodati e le loro “maschere” così collaudate che la direzione artistica è stata minima. Avendo fatto tre serie televisive arrivi sul set e non è che puoi fare cose diverse. Qui. invece, come già nel film precedente (Quel bravo ragazzo, ndr), mi sono trovato alle prese con un linguaggio più tradizionale con il quale mi sono diverto molto di più. Lavorare con attori dalla carriera consolidata, e in taluni casi di livello internazionale, è stato bello e stimolante. Il fatto che interpreti stranieri si siano fidati di me mi ha fatto molto piacere.
Successe ai tempi de La vita è bella, succede in molte commedie francesi come Quasi amici: quando si tratta di mettere in scena categorie sociali sofferenti o minoritarie bisogna stare attenti a non offendere la sensibilità di coloro che ne condividono il dramma. Ti chiedo se anche voi avete preso precauzioni in tal senso.
Ti dico: una volta consegnata la sceneggiatura abbiamo iniziato a lavorarci soprattutto io e Aldo e lì, ovviamente, è partita un po’ di autocensura, perché quando scrivi non ti poni alcun freno mentre una volta finito ti viene da chiederti se, in qualche modo, sei stato offensivo verso qualcuno. Arrivando da I soliti idioti, sono più cinico e, dunque, nella sceneggiatura non ho trovato alcuna forma d’offesa. La cosa più semplice da fare è stata quella di confrontarmi con Jacky e Fatou, chiedendogli per esempio se la scena in cui personaggi si mettono a imitare il verso delle scimmie potesse risultare offensiva. Secondo me non lo era, poiché il personaggio di Jacky si rifiuta di farlo, pur trovandosi in un ambiente dove il razzismo dell’ambiente suggerirebbe il contrario. Nel montaggio ho tagliato un po’ del girato perché a un certo punto nel fare questo verso la scena si era trasformata in una sfida tra Aldo e Mugandi. A Jacki piaceva molto, però gli altri non se la sono sentita, da cui la decisione di accorciarla.
Scappo a casa è costruito su un espediente classico che è quello di invertire le parti tra vittime e carnefici e di far passare la redenzione dei secondi attraverso una serie di prove sacrificali. Quali sono stati gli accorgimenti visivi per corrispondere a questa premessa?
Come hai detto, per noi era importante invertire i ruoli tanto che, ad un certo punto, vediamo Mugandi in camicia e Aldo in tuta. Un dettaglio utile a far capire che tra le persone che sbarcano sulle nostre coste c’è anche gente laureata. Inizialmente Mugandi doveva essere mezzo medico e mezzo sciamano, ma il fatto che parli molte lingue la dice lunga sul suo livello d’istruzione. Tenevamo molto a capovolgere le condizioni di partenza e lo volevamo evidenziare bene.
Il protagonista della storia è il tipico gallo italico, sciupa femmine e cialtrone. Un concentrato di vizi, tic e ossessioni che confluiscono nel corpo e nella maschera di Aldo Baglio in maniera sobria e asciutta e, soprattutto, senza identificarlo con il personaggio che lo ha reso celebre.
Quando sono andato a conoscerlo, gli ho domandato che tipo di Michele voleva essere, e cioè se sarebbe stato altro dall’Aldo che tutti conosciamo. Chiaramente, speravo che la risposta andasse in direzione di un personaggio più strutturato e credibile. Abbiamo parlato anche dell’accento da utilizzare, essendo entrambi d’accordo che sarebbe stato un tipo di palermitano con una cadenza più sfumata, in ragione del fatto che il protagonista vive da tempo nel nord Italia. Un particolare coerente con il fatto che inizialmente Michele non accetta la sue radici meridionali, dissimulate attraverso la ricerca di tonalità più neutre. Abbiamo lavorato in costante armonia, filmando solo cose su cui eravamo entrambi d’accordo.
Nella sua recitazione quanto c’è di studiato e quanto è lasciato all’improvvisazione?
Non so come lavori con il trio, ma c’erano delle scene in cui era preparatissimo; come in quella fienile insieme a Mugandi. La preparazione è durata parecchi giorni e nonostante la sua lunghezza – sette minuti circa – non abbiamo dovuto tagliare nulla, perché reggeva benissimo. Alcune sequenze le facevamo seguendo la sceneggiatura, ma se ci accorgevamo che qualcosa non funzionava lui in tre secondi era capace di pensare a un’idea e di improvvisarla senza alcun problema. Aldo è voluto arrivare molto preparato, ma questo non gli ha impedito di inventare dal nulla, laddove era necessario.
Com’è nata la scelta di affidare il ruolo della cattiva di turno ad Angela Finocchiaro?
È stato Aldo a propormela. Io non pensavo a lei, quindi mi sono affidato all’intuito del mio attore. Lei ha fatto un sacco di domande sul suo personaggio, ma insomma, è stata una cosa divertente.
Prima di lasciarti, un’ultima domanda: abbiamo parlato del tuo eclettismo, quindi a quando la decisione di girare un film drammatico?
Guarda, io scrivo tanto e quando ho un’idea non riesco a tenermela ma la devo buttare giù. Scrivo commedie ma anche cose drammatiche: horror e western. Purtroppo in Italia quando ti fai conoscere per un determinato genere fatichi ad uscirne, così quando propongo una cosa drammatica la gente ci rimane male e spesso mi dice che si tratta di cose troppo internazionali, il che per me sarebbe un pregio ma per loro no (ride, ndr). Comunque, continuo a provare a fare cose diverse: forse non sai che il mio primo corto, quello che si è fatto più notare, era grottesco, surreale e anche drammatico. Grazie a questo lavoro sono stato selezionato ai festival di Venezia e di Los Angeles, per cui il mio inizio è stato quello. Poi, mi piace frequentare qualsiasi genere, nella convinzione che un autore se ha qualcosa da dire dovrebbe mettersi alla prova nei campi più disparati.