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Serie Tv

The Big Bang Theory finisce: si chiude un’epoca

La sitcom di CBS termina il suo viaggio dopo essere entrata nella storia della televisione

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Se orange is the new black, allora nerd is the new sexy: così come diversi serial, negli ultimi anni, hanno ridefinito il concetto di azione così come di dramma, The Big Bang Theory ha permesso all’intrattenimento televisivo di compiere un ennesimo salto in avanti, dopo la spinta propulsiva degli anni Zero con Lost, I Soprano e Sex & The City che hanno rivoluzionato il medium. Soprattutto perché, in linea con lo sviluppo di Friends (sitcom leggendaria, che ha tracciato una linea di confine nettissima tra un prima e un dopo nella commedia televisiva), BBT ha saputo incastrare alla perfezione realtà e finzione, con il tramite di personaggi ibridi che si muovono tra il grottesco e un umanesimo tridimensionale.

Calcando la mano, questa volta e a differenza di quasi la totalità dei prodotti seriali, non su caratteri tipizzati che ricalcano la figura dell’eroe (antieroe, o suo malgrado che sia), ma sul perdente, sul loser, che nel postmoderno assume i connotati del nerd, del geek. L’intelligenza non è mai stata affascinante, se non associata alla malattia mentale: Big Bang invece fin dall’inizio si discosta dal modello imperante, svolgendo la sua narrazione intorno alla vita di quattro scienziati brillanti sul lavoro ma perdenti nella vita, totalmente inadeguati alla vita sociale.

The Big Bang Theory è stata ideata da Chuck Lorre e Bill Prady nel 2007; prodotta dalla Warner Bros, è andata in onda sulla CBS ininterrottamente per dodici anni, registrando un gradimento altissimo ma soprattutto regalando ai suoi attori protagonisti una notorietà mondiale. La dodicesima stagione attualmente in onda sarà l’ultima.

Leonard, Sheldon, Howard e Raj -senza contare le aggiunte successive di Penny, Amy e Bernadette- formano un microcosmo che a sua volta si rispecchia e si nutre di un altro microcosmo, fittizio eppure reale, come quello dei fumetti, costruendoci sopra dei meccanismi di difesa ben più drammatici di quanto si possa pensare, ma che si risolvono in situazioni quotidiane di una insostenibile leggerezza, in special misura nelle prime tre-quattro stagioni, almeno fino a che la struttura non si stabilizzerà. Ognuno di loro ritrae e sblocca un particolare trauma sociale: un complesso di Edipo irrisolto (Howard), ansia intimidatoria nei confronti del sesso opposto (Raj), totale mancanza di autostima (Leonard), quasi assoluta sociopatia e accenni dell’Asperger (Sheldon). La crasi più profonda, in BBT e nei suoi protagonisti, risiede nell’estrema facilità di risoluzione per problemi scientifici e nell’assoluta incapacità di farlo in un contesto sociale dove la genialità distintiva dei quattro si irrigidisce in una goffaggine divertita e divertente.

È proprio per tutti questi motivi che è impressionante come gli autori abbiano saputo mantenere la scrittura della sit-com a livelli così alti per ben dodici anni, da una parte ripetendo alcune situazioni per creare degli appigli e dei “tormentoni” così da far sentire comodi gli spettatori, dall’altra innovando ed innestando in piccole quantità spunti e trame a tratti anche destabilizzanti, risolte con leggerezza comunicativa ma mai con superficialità. The Big Bang Theory è diventato, per ben dodici stagioni, una galleria di aforismi da far invidia a Groucho Marx e Oscar Wilde messi insieme: con sequenze oltretutto che non di rado suonavano corde incredibilmente profonde, plasmate su una direttiva didattica di fondo sostanziale (da non dimenticare che si sono succedute guest star come Stephen Hawking, il premio nobel George Smoot, Brian Greene).

Straordinario anche il comparto della traduzione, quantomeno dalla nona stagione in avanti: spesso bistrattata, la trasposizione dall’opera straniera in BBT ha toccato vette altissime, riuscendo nell’impresa titanica di sostituire frasi con giri di parole a prova di traduzione con altre di altro significato ma altrettanto incisive (come fare a riportare dallo slang americano all’italiano robe come “Oh gravity, thou art a heartless bitch”, boutade oltretutto di derivazione lessicale shakespeariano?).

In realtà, la serie possiede i topòi tipici della tradizione (da Tre Cuori In Affitto fino al citato Friends: appartamenti colorati, luoghi d’incontro felici), mentre dall’altro lato, contemporaneamente e insospettabilmente mette in scena doppi sensi a sfondo sessuale e un umorismo a metà strada fra lo yiddish e la screwball comedy, ma è proprio questo suo incredibile e irripetibile equilibrio a renderla avanguardistica e universale. E con la sua conclusione si chiuderà di certo un’epoca: per capire meglio quale con esattezza, dovremo riguardare domani i 279 episodi con attenzione.

GianLorenzo Franzì

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