C’è qualcosa che stride in questo atteso ritorno di una coppia che, nel bene e nel male, d’accordo o meno, tanto ha (de)scritto l’Italia degli anni Novanta e, soprattutto, tanto ha dato all’industria cinematografica di fine millennio. Suona poi strano che proprio Massimo Boldi e Christian De Sica tornino quando il cinepanettone (inventato da Carlo ed Enrico Vanzina sotto altre forme, poi decontestualizzato e storpiato da Parenti e via dicendo) ha perso forza, smalto se non senso, smorzato e spaccato sotto il peso delle fregole commerciali natalizie. L’ottava prova dietro la macchina da presa di De Sica suona ancora più stridente, infatti, laddove Amici come prima appare, in maniera evidente, come un film dentro un altro film: se nelle intenzioni dell’autore la sua regia avrebbe dovuto parlare del dramma di un uomo che vuole diventare donna – tema da sempre accarezzato con sensibilità da Christian, declinandolo con il sorriso e con il pianto -, il risultato finale è passato per le forche caudine di una produzione che ha più o meno forzatamente inserito Boldi e che, sempre forzatamente, ha trasformato il film in un ibrido a metà strada tra la commedia e il comico.
Esce fuori, allora, un Frankenstein, malvagio suo malgrado, che apre addirittura con un piano sequenza, che fa ben sperare, e chiude con il metacinema (citando apertamente, e addirittura, Mario Bava), lasciando intravedere lungo il percorso alcune ambizioni autoriali, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e chiudendosi, poi, mentre si toccano quei toni dolce-amari di cui De Sica è esperto.
Non è quindi in dubbio il fatto che Amici come prima sia un’operetta sgangherata e mainstream dedicata ai fan della strana coppia: lo confermano senza tema di smentita le continue strizzatine d’occhio alla loro carriera e la ripresa di taluni tormentoni lessicali, inseriti anche svogliatamente e che non sempre raggiungono l’obiettivo (far ridere). Quello che invece desta interesse – e stride – e crea un cortocircuito per cui non si riesce a odiare totalmente questo film è proprio il fatto che gli inserti con De Sica protagonista assoluto sono quasi perfetti – bella l’alchimia con la Savino – ma cozzano prepotentemente con le sequenze che vedono Boldi – stavolta più misurato che altrove – al centro della storia, non trovando nessun punto di equilibrio e non riuscendo mai ad amalgamarsi. D’altronde, questo film esce in sala proprio in un periodo in cui i citati cinepanettoni si frammentano in tante piccole inutilità (dal vuoto pneumatico di Pieraccioni alle storie che nascono per dar spazio alle stelle certo non fulgide del web e/o della tv) e in cui la rivalutazione del nazional-popolare – chi ha detto Vanzina? – è in pieno fermento, non sempre a sproposito e, va detto per onestà intellettuale, forse sempre un po’ in ritardo.
Ma probabilmente il cinema è bello e straripante e vitale anche per questo: non sempre si cresce come si nasce. E se non è tutto oro quello che luccica, non sempre è letame ciò che puzza.
Gianlorenzo Franzì