Più thriller psicologico che dramma, con sullo sfondo i consueti connotati di stampo politico cari al regista, la pellicola diretta da Santiago Mitre, pur presentando un profilo apparentemente semplice, sembra voler rifuggire i cliché classici del genere con una caparbia e una solerzia tale da portare lo spettatore a perdersi nello stesso gelo custode delle vette andine nelle quali muove l’intera vicenda. Ne Il Presidente tutto sembra avvolto da una spessa e indistinta cortina di emozioni rarefatte, imprigionate nello sguardo enigmatico e impenetrabile di Hernán Blanco, il neo presidente dell’Argentina impersonato da un eccellente Riccardo Darín. Le strade mai rettilinee che si arrampicano per la Cordigliera delle Ande sembrano collimare con lo svolgimento narrativo della sceneggiatura, costantemente in ostaggio di una suspense in realtà mai interamente compiuta. La scrittura di Mariano Linás e dello stesso Mitre dà l’impressione, fin dalle prime battute, di voler costruire una storia a doppio filo, legando il progressivo svelamento della personalità di Blanco all’incalzare dei giochi di potere nel dietro le quinte del Summit. È una trama sottile di deduzioni a prima vista imperscrutabili che si alimenta, dopo il breve incipit all’interno della cabina del volo presidenziale argentino, nel vertice che i capi di Stato dei principali paesi sudamericani, con l’aggiunta del Messico, tengono per decidere un importante accordo energetico.
Blanco e la sua Argentina sono l’ago della bilancia per l’approvazione della risoluzione che sancisce l’allargamento del contatto ad alcuni stati dell’America centrale, dietro i quali si pensa possano celarsi l’influenza e gli interessi degli Stati Uniti. Dopo un primo tentativo messicano andato a vuoto, Blanco alla fine raggiunge un compromesso direttamente con gli emissari di Washington, il tutto all’insaputa degli altri Stati membri. Un punto di svolta importante che coincide con la crisi sempre più acuta di Marina, la figlia reduce da una dolorosa separazione dal marito, che il Presidente ha voluto accanto a sé soprattutto per tenere sotto controllo le iniziative del suo ex genero, a conoscenza dei fondi occulti pervenuti in passato alla sua parte politica. La situazione sembra precipitare quando Marina comincia a manifestare il traumatico affiorare di ricordi non pertinenti, di un passato esistito ma, secondo le dichiarazioni di Blanco stesso, da lei mai vissuto.
“Tanto tuonò che piovve” è sicuramente la frase meno indicata per descrivere il fluire dei pensieri allo scorrere dei titoli di coda di una pellicola che vive di pennellate di colore per un quadro che alla fine risulta relativamente appassionante e succube di una scrittura raffinata, ma con troppe frecce spuntate nella faretra. Un peccato neanche tanto veniale che, tuttavia, non inficia l’eleganza dei movimenti classici della macchina da presa e la fotografia dalla grana avvolgente di Javier Julia. Encomi che vanno divisi equamente con gli interpreti tutti, dal già citato Darin alla convincente Dolores Fonzi, “Marina”, e il montaggio di Nicolas Goldbart, meritevole di miglior fortuna.