Horizons di Svetislav Dragomirović è un noir ambientato in un paesaggio fluviale e in una campagna invernale e spoglia, in cui la presenza del dramma si cela dietro i canneti e sotto le correnti delle acque. La giovane Jovanka confessa al marito Zoran di essere incinta di un figlio non suo. Zoran vuole che la moglie abortisca e la porta dal veterinario di zona per un intervento clandestino. Ma sia il veterinario sia il fratello Milan fanno in modo che ciò non succeda. Preso da un impeto di rabbia, di fronte alla moglie che non vuole rivelare il nome dell’amante, Zoran la strangola e nasconde il corpo nel fiume. Viene scoperto da Milan, a pesca con suo figlio, e durante un litigio il ragazzo imbraccia il fucile e uccide lo zio. Il cugino assiste alla morte del genitore da lontano sulla riva senza essere scorto dai due.
Horizons mette in scena un dramma familiare in cui regna un’atmosfera di non detto, di bugie, di conoscenze sottaciute, dove la società degli uomini si basa su un codice di violenza repressa che brucia sotto le ceneri di un’apparente tranquillità quotidiana. Le donne sono soggetti passivi, personaggi a latere, oggetto del contendere del maschio e scatenanti le pulsioni appena sotto traccia di una facciata di falso perbenismo. Il regista serbo utilizza la sineddoche familiare per mettere in scena una società dove la pulsione verso la morte è sempre presente, in cui la religione, la caccia, la pesca, la famiglia, il podere, insomma la “roba”, verganiamente parlando, sono elementi fondativi delle relazioni umane. Tutto ciò crea una continua tensione morale e psicologica in cui l’esercizio del male e la prassi della morte sono espressi tramite un grumo scuro di uccisioni non solo di altri esseri umani, ma anche della fauna e dell’ambiente che li circonda.
In questo senso, in Horizons il dialogo tra i due cugini ormai adulti, dopo anni dagli omicidi, circa la preferibilità dell’acqua o della terra, è emblematico della contrapposizione degli elementi naturali che producono l’emotività umana. Il risultato dell’unione di acqua e terra, però, porta al fango della riva, simbolo della palude emotiva in cui tutti i personaggi sono impanati senza scampo. Se fosse tutto qui risulterebbe un film che rientra in canoni prestabiliti di un certo cinema nordico e slavo, ma Dragomirović compie una scelta stilistica nell’utilizzo del montaggio che crea uno scarto di originalità rendendo Horizons un’opera di un certo interesse.
Horizons è così diviso in due parti. Nella prima si assiste agli assassini e agli eventi che li hanno prodotti, tramite una messa in serie retrograda: all’inizio abbiamo la prima sequenza, dove è messo in scena la morte di Zoran, e la storia è narrata per quadri successivi a ritroso, che ritornano in modo circolare fino all’inquadratura iniziale come un uroboro in una visione cannibalica della famiglia e della società. La seconda parte, invece, si sviluppa in modo lineare. Un’ellissi temporale ci porta anni dopo la vicenda, vediamo Milan invecchiato e in prigione e i due ragazzi, ormai divenuti adulti, che devono fare i conti con il loro passato e i rimorsi. La costruzione del film rispecchia in questo modo il passato e il presente, ed essa stessa è una metafora degli accadimenti della vita. Presentato in concorso al XVI° Ravenna Nightmare Film Festival, Svetislav Dragomirović con Horizons crea un’opera densa e disturbante, in cui l’essere umano ne esce con tutte le sue debolezze e ipocrisie irrisolte e irrisolvibili.