«Se si dovesse impiegare una sola parola per descrivere lo spirito con cui è stato realizzato “Pietro” di Daniele Gaglianone, sarebbe giusto utilizzare l’aggettivo ‘essenziale’».
Se si dovesse impiegare una sola parola per descrivere lo spirito con cui è stato realizzato questo film, sarebbe giusto utilizzare l’aggettivo ‘essenziale’. Essenziale è la struttura produttiva che c’è dietro il film, budget ristretto, intelligente uso delle migliori tecnologie digitali a disposizione, riduzione di inutili costi di produzione, nessun cedimento ad escamotage pubblicitari o tentazioni commerciali. Essenziale la trama, che viene volutamente tenuta piatta, senza seguire strutturati archi di trasformazione dei personaggi, suddivisione in atti della sceneggiatura con relativi posizionamenti dei momenti clou (svolta, climax, etc). Essenziale la recitazione, spesso lavorata in sottrazione. Gli attori protagonisti (Pietro Casella, Francesco Lattarulo, Fabrizio Nicastro) forniscono una buona performance drammatica, pur provenendo da un’esperienza lontana, quale la comicità teatrale di genere surreale; da sottolineare in particolare quella di Casella.
Il film di Daniele Gaglianone è prodotto da una collaborazione tra Babydoc e La Fabbrichetta di Gianluca Arcopinto, con il contributo della Torino Film Commission: un esempio virtuoso di come piccoli produttori possano realizzare opere di valore e di interesse, anche senza godere di finanziamenti faraonici. La scelta della tecnologia di ripresa è ricaduta sulla Red, che unisce il pregio di una fotografia di qualità, paragonabile alla pellicola, con il vantaggio del contenimento dei costi.
Il regista costruisce una sorta di pressa filmica che schiaccia le storie dei personaggi come a rappresentare la cappa di pesantezza, costruita nella società, che livella e stritola le vite reali che i personaggi rappresentano. Eppure, a tratti, un movimento di camera, una fredda luce azzurra sotterranea, estenuanti movimenti delle ottiche, che portano e allontanano dal fuoco i soggetti, indicano la volontà di alludere anche ad altro. La possibilità di un’altra estetica filmica, un altro mondo, da cui filtra una luce quasi estetizzante, che confonde, come inaspettato spiazzamento rispetto alla scelta di realismo minimalista, estremo, che dal regista viene proposto allo spettatore sin dalla prima sequenza.
Il film è girato a Torino, ma potrebbe svolgersi in qualunque altra periferia industriale. Le ambientazioni sono totalmente anonime, come le vite dei personaggi. Le loro sofferenze e difficoltà possono essere quelle di qualunque altro giovane ingoiato e compresso dai meccanismi della modernità post-industriale: la precarietà, la marginalità sociale che diventa solitudine e frustrazione personale, incapacità di relazioni umane degne di questo nome.
Pietro porta addosso i segni dei colpi presi, per quelli come lui non c’è la possibilità di nasconderli, il volto è una mappa che registra gli eventi della vita. Questa non è una storia di speranza, Pietro non è l’eroe positivo che può fermare “il fascismo prossimo venturo”, di cui sono simboli premonitori alcuni antieroi di bassissima levatura (piccoli spacciatori, tossici, bulli, padroncini-ricattatori,…). Pietro è un uomo solo e malato, la sua rivincita ha la forza disperante degli uomini perduti. I suoi gesti di ribellione estrema non segnano l’alba di un possibile riscatto, ma solo la traccia di un insopprimibile anelito vitale. L’ultima fiammata che distrugge tutto quanto la circonda, senza nessuna idea di futuro. Perché un mondo così non ha futuro.
Pasquale D’Aiello
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