L’intramontabile personaggio nato dalla penna di Cervantes, Don Chisciotte, ha sempre ossessionato il cinema che, dalla sua nascita a oggi, gli ha dedicato più di dieci adattamenti. E non poteva andare diversamente, perché ciò che, innanzitutto e per lo più, contraddistingue il folle cavaliere errante, mosso dallo strampalato desiderio di raggiungere e proteggere la fantasmatica Dulcinea, è una visionarietà strabordante. In un certo senso, si potrebbe dire che il romanzo dello scrittore spagnolo sia una sorta di macchina che produce immagini: le allucinazioni di Quixote – una psicosi, la sua, da cui prendono forma personaggi fantastici e che delinea, sintomaticamente, un’eticità interdetta al solipsismo della modernità – costituiscono l’occasione per riformare l’asfittico ordine simbolico in cui siamo catturati. La dialettica Chisciotte-Sancho Panza, che incarna quella tra immaginazione e realtà, dipanandosi si scioglie in una gioiosa indiscernibilità, per cui, per l’appunto, non è più possibile tracciare una netta distinzione tra l’una e l’altra. Insomma, Quixote è un contestatore, uno che alla scialba causalità che lega il succedersi della manifestazione dei fenomeni contrappone una ‘logica altra’, anzi, a rigore, un’assenza di logica. A contare davvero, per lui, è il tempo emotivo, interiore, il quale all’inizio si giustappone a quello cronologico, ma, alla fine, diventa quasi un tutt’uno con esso, laddove si giunge a un punto in cui l’uno ‘trasuda’ nell’altro, aprendo un magico ‘piano d’immanenza’ che libera immagini, energie e possibilità inaspettate.
Oltre al leggendario film incompleto di Orson Welles, del Don Chisciotte esiste una versione cinematografica del 1933 di Georg Wilhelm Pabst, altre due (quando ancora il cinema era muto) del 1915 e del 1927, rispettivamente di Edward Dillon e Lau Laritzen e, per finire in bellezza, lo sfumato sceneggiato televisivo ideato da Carmelo Bene, che avrebbe dovuto coinvolgere artisti incredibili, quali Eduardo De Filippo, il clown sovietico Popov e il geniale Salvador Dalí per le scenografie. A dimostrazione di quanto, come si diceva, la visionarietà e l’umorismo involontario e drammatico di Chisciotte abbiano colpito nel profondo molti autori di spicco del Novecento.
E chi oggi, più di Terry Gilliam, poteva essere adatto a riportare sullo schermo lo scapestrato eroe? Inutile ritornare sulla questione dell’interminabile gestazione del progetto da parte del regista americano – ormai arcinota -, piuttosto è bene concentrarsi sul film, senza lasciarsi suggestionare dall’aura che l’ha avvolto per venticinque anni. E, dunque, per prima cosa, si deve senz’altro riconoscere che Gilliam, che è un autore che ha meditato non poco sullo statuto ontologico dell’immagine in movimento (la sua filmografia lo dimostra ampiamente, senza contare l’ultimo, significativo lungometraggio, The Zero Theorem, una sorta di saggio sull’argomento), ha, ancora una volta, centrato il nocciolo della questione, dando corpo proprio a quella continua osmosi che interviene tra immaginazione e realtà, verità e finzione, Simbolico e Immaginario.
Toby Grisoni (un Adam Driver che circola all’interno del film come se, prima di esserne il protagonista, cercasse di capire cosa accade), divenuto uno scaltro regista pubblicitario, con tutte le pose e i tic di chi ormai si sente arrivato, si ritrova, in maniera apparentemente causale, a dover fare i conti con un passato che lo reclama, al quale non può sottrarsi. Jonathan Pryce, ovvero Javier, un anziano signore ormai convinto di essere Chisciotte, dopo aver girato un film su di lui, molti anni prima, proprio con Grisoni, rappresenta una sorta di resto inconsumabile, laddove la sua tenera follia, lo estromette dal circuito onnivoro del ‘discorso del capitale’. Egli è uno che resiste, un oppositore, un puro non disposto a scendere a patti con la realtà e le migliaia di compromessi che essa impone. Toby, suo malgrado, si ritrova in un’enorme avventura in cui cinema, realtà, follia, visioni si mescolano vorticosamente, impedendogli – e impedendo a noi spettatori – di poter distinguere, porre confini, discernere. E Gilliam in ciò è abilissimo, non si risparmia, si (e ci) estenua mosso dal sacrosanto desiderio di far cortocircuitare il significato e lasciar circolare una selva di significanti cui è rimesso il compito di segnalare quel ‘senso’ che c’è, ma, e non potrebbe essere altrimenti, è situato in un ‘fuori campo assoluto’ da cui non smette di riverberare magnificamente su tutto il film.
La parte centrale – e più consistente, anche dal punto di vista della durata – de L’uomo che uccise Don Chisciotte è proprio tutta incentrata a porre in essere tale circostanza, e il regista, coerentemente, non esita a sottoporci a una visione a tratti faticosa, perché il suo scopo principale era proprio segnalare quanto non sia possibile tradurre ogni cosa all’interno dello spettro dello scibile, dell’intenzionalità: esistono delle ‘eccedenze’ che non tollerano traduzioni, laddove quest’ultime comporterebbero inevitabili tradimenti che ne altererebbero completamente il senso. Allora, a Toby non resta che ‘tornare a casa’, a sé, raccogliendo un’eredità che gli spetta, che non può disattendere, pena la condanna a vagare, deambulare, brancolare nel buio della notte del mondo, sprofondando nell’abisso prosaico di una contemporaneità ossessionata dalla delirante volontà di incorporare tutto l’esistente nell’interfaccia di un gelido monitor.
Terry Gilliam se ne infischia di compiacere lo spettatore, va per la sua strada, seguendo personali suggestioni e sensazioni, nonché l’esigenza di continuare con onestà un percorso di riflessione coerente sull’immagine, installandosi ancora una volta nella traccia della sua eccedenza e rincorrendo poeticamente quell’insuperabile scarto che ogni volta ci separa da essa.
L’uomo che uccise Don Chisciotte sarà nelle sale dal 27 Settembre con M2 Pictures.