La prima cosa che mi ha colpito nel film è il modo con cui nella prima parte decidi di mostrare la vita del protagonista. Lui è immigrato da un altro paese, ma è pienamente padrone dello spazio all’interno dell’inquadratura. Ismail vi agisce non come un estraneo ma nel pieno controllo delle situazioni. Questa modalità di presentazione mi sembra molto politica, perché le immagini affermano la piena integrazione del protagonista nel tessuto sociale in cui vive, quindi anche al nostro.
Si, l’offerta di fondo è stata quella di realizzare un film dalla parte di Ismail, un punto di vista estraneo alla nostra cinematografia. Lui vive il suo spazio e il suo tempo in Europa come una conquista. Per riuscirci ha dovuto lottare e sopravvivere. È per questa ragione che nella prima sequenza, quella in cui cerca di farsi riconoscere dalla madre, pronuncia il proprio nome: attraverso tale enunciazione porta la sua storia al cospetto degli spettatori, nell’intento di legittimare la sua esistenza all’interno di una narrazione possibile della nostra contemporaneità.
A fronte di quello che abbiamo detto sulla forte personalità del protagonista, e direi anche del suo fisico imponente, Ismail è una persona gentile e delicata, portatrice di una sensibilità fuori dal comune: lo si vede quando parla, pronunciando le parole a voce bassa, quasi sussurrandole, e soprattutto nel modo di stare con gli altri. Lui non invade lo spazio altrui, non tocca le persone che gli sono care, però è in grado di star loro vicino in maniera partecipe, confortevole. Trattandosi di un linguaggio del corpo molto particolare volevo chiederti come viene fuori.
Questo domanda è meravigliosa! Il linguaggio del corpo del protagonista è conseguenza della sua mitezza. Ismail è mite nel senso più politico del termine e, come diceva Roberto Bobbio ne L’elogio della mitezza , nel “lasciare che gli altri siano come sono”. Ecco, in qualche modo la mitezza di Ismail è una forma di resistenza a qualsiasi tipo di violenza, è un uomo di pace in un mondo crudele, fatto di cinismo, indifferenza e di grandi violenze nel quale Ismail, però, non rinuncia alla sua centralità, alla sua saggezza. Da questo punto di vista, lui è sapiente perché ha vissuto delle esperienze difficili, ma, allo stesso tempo, è molto giovane e, quindi, fragile per il fatto di essere un uomo ancora in formazione, alla ricerca di una propria definizione. Ed è proprio questa mancanza di definizione che lo fa stare sempre in bilico tra passato, presente e futuro, tra due terre, tra gli affetti, nella ricerca di una madre dalla quale vuole farsi riconoscere. Quest’ultima è una differenza decisiva: lui cerca, si, la madre, ma il suo desiderio è quello di essere riconosciuto, che è qualcosa di ancora più profondo perché ha a che fare con lo stare al mondo.
In effetti, per come lo metti in scena, Ismail è una figura concreta e insieme poetica. A tal proposito, un altro momento significativo è quello in cui il protagonista e Nina si trovano sull’autobus. Il modo in cui si guardano, i sorrisi che si rivolgono esprimono un sentimento di affetto e condivisione più forte di quello che potrebbe prodursi da un bacio o un abbraccio. Mi racconti come hai concepito questa sequenza?
Ismail e Nina si stanno conoscendo e riconoscendo. Nina assiste, o meglio, sta per assistere senza volerlo a quello che sarà un momento chiave dell’esistenza di Ismail e cioè alla sua telefonata alla madre. È in quell’attimo che noi come spettatori ci avviciniamo allo sguardo di Nina e iniziamo a guardare Ismail con gli occhi di lei. In più, il pudore con cui Ismail ama Nina fa parte della ricerca di sé: sarà capace di dichiararle il sentimento che prova per lei solo quando la ragazza, e di conseguenza lo spettatore, avranno conosciuto il suo dramma. C’è, quindi, un passaggio di identificazione molto forte: noi siamo con Ismail quando Nina viene a conoscenza della sua storia, compensando le conoscenze che lo spettatore aveva già rispetto all’argomento. La differenza è che dopo quel momento guardiamo il protagonista con gli occhi della donna, ci innamoriamo di lui come fa lei.
Tra l’altro Sembra mia figlio testimonia anche la possibilità di far convivere esperienze diverse, perché se è vero che entrambi sono stati segnati dalla guerra ho trovato bello il fatto che si comprendano, nonostante Ismail cerchi di ritrovare la madre, mentre Nina la sua l’abbia fatta tornare a casa da sola, preferendo restare in Italia.
Be si, questi racconti di madri che lasciano andare i figli e di figli che cercano nuove terre hanno a che vedere con narrazioni se vogliamo anche un po’ mitologiche, nel senso che nell’esistenza privata di questi personaggi ci sono echi delle esistenze avventurose dei grandi eroi ed eroine. Si tratta di una cosa che traspare nello sviluppo del racconto, perché sono realtà che fanno i conti con questioni determinanti dell’essere umano e dello stare al mondo come possono esserlo il viaggio, l’avventura, l’ignoto e pure il dichiarare il proprio nome in una terra straniera.
Il film mantiene inalterati i presupposti del tuo cinema: dall’attenzione al sociale, al rigore con cui viene racconta la storia di Ismael e quella del popolo Hazara. Il fatto, poi, che a prevalere siano le convenzioni del cinema di finzione su quelle del documentario mi pare rappresenti un passo in avanti nella messa a punto del tuo dispositivo in cui sempre meglio le due componenti riescono a convivere. Ti chiedo come hai deciso di raccontare la storia privilegiando le tecniche e le regole del cinema di finzione.
Ho scelto di fare un lungometraggio basato su una sceneggiatura e, quindi, a soggetto, perché volevo affrancarmi dalla storia vera di Mohammad Jan Azad, il ragazzo che mi ha introdotto in questo mondo, a favore di un racconto che avesse valenza universale. Nel film c’è anche una dimensione di sogno che non bisogna dimenticare, perché se il tema ha una radice autentica e molto profonda nei sentimenti, nei corpi e direi nella carne della persone che vediamo in Italia e poi in Pakistan, tra la gente del popolo Hazara, è altrettanto vero che in certi passaggi ambientati in Italia e soprattutto in Pakistan si ha l’idea che questa gente potrebbe anche non esistere. Voglio dire che c’è una dimensione del sogno capace di portare il racconto a un livello d’astrazione tale per cui all’inizio stiamo con Ismail e basta, lasciando il resto fuori luogo e fuori campo. Successivamente, la dimensione del sogno cambia perché guardiamo Ismail dall’esterno; attraverso lo sguardo dello spettatore, che è anche quello di Nina, prendiamo le distanze dalla soggettività di Ismail, il quale nel frattempo è diventato parte di una moltitudine più ampia di sopravvissuti che potrebbe essere altrettanto non reale ma sognata.
Ciò che dici trova corrispondenza nel modo in cui hai girato il film. Nella prima parte, quando a prevalere è l’esperienza individuale di Ismail, le inquadrature sono più chiuse. Nella seconda, invece, quella del viaggio in Pakistan e Afghanistan, in cui si parla di situazioni condivise con altre persone, l’obiettivo della macchina da presa si apre a campi lunghi e lunghissimi; addirittura verso la fine inquadri per la prima volta dall’alto il protagonista mentre cammina per strada, mentre in precedenza ti eri mantenuta con la camera sempre a livello uomo. Ti ritrovi in questa analisi?
Si, c’è una corrispondenza assoluta tra ciò che ho fatto e quello che hai appena detto. Nel senso che questa analisi che stai facendo mi gratifica e mi commuove perché è cosi. La mia intenzione era proprio quella, nel momento in cui, attraverso il racconto del film e lo svelamento delle cose che succedono veniamo a conoscenza che il dramma di Ismail non è solo suo ma di un’intera collettività. Attraverso la comprensione dei fatti siamo in grado di prendere le distanze da ciò che abbiamo finalmente conosciuto così come la macchina da presa di contestualizzarle, alzando lo sguardo per rivolgersi a Ismail come parte di un tutto. Non a caso le proporzioni si invertono: all’inizio stiamo con Ismail e tutto il resto è lontano, evocato, poi, man mano che il racconto procede, arriviamo a delle scene in cui Ismail è veramente parte di un tutto, a volte quasi indistinto, perché si confonde nella massa dell’umanità. In fondo la storia di Ismail è la storia di Ulisse, è la storia di ogni uomo e ogni donna.
Grazie a un girato pulito e rigoroso, ciò che dici si trasforma in significati capaci di arrivare in maniera forte e chiara all’istinto dello spettatore senza bisogno di ulteriori processi intellettivi. Tra l’altro, anche la scelta di variare continuamente la distanza della macchina da presa rispetto ai personaggi, alternando campi medi/lunghi e primi piani, è il segno di una partecipazione che sa prendere le distanze da ciò che filma. Questo ti permette di evitare una certa retorica connessa con i temi trattati.
Sicuramente, la questione della distanza è fondamentale, perché il film si pone in ascolto e in attesa – insieme a Ismail – che le cose accadano. All’inizio c’è un tono molto intimo in cui come spettatori superiamo tutte le barriere materiali. Siamo sempre con il protagonista e addirittura nel suo padiglione auricolare, cioè siamo dentro a quel telefono, sentiamo i respiri della donna e gli affanni dei suoi pensieri. Dopo averlo conosciuto nell’intimo possiamo guadagnare la distanza che ci permette di raccontarlo meglio.
Per restare alla coerenza tra immagini e parola, Sembra mio figlio è pieno di facce indimenticabili. In particolare c’è un momento in cui Ismail dice che il suo volto è anche la sua condanna, perché i tratti somatici lo consegnano – come il resto del suo popolo – alla mercé dei suoi persecutori. In questo senso trovo corrispondenza su come tu faccia del volto la (prima) chiave di accesso per conoscere Ismail. Esiste questa simmetria?
Si, assolutamente, perché dalla prima inquadratura noi conosciamo Ismail attraverso il suo volto e la sua lingua a noi ignoti. Osserviamo i suoi occhi a mandorla, ascoltiamo un idioma che non abbiamo mai sentito e quando, come spettatori, siamo immersi dentro il racconto lui ci chiarisce che quella faccia a cui ci siamo abituati è la sua condanna. Ma non basta, poiché in Pakistan il suo volto si moltiplica in quello degli altri mentre la sua solitudine diventa la stessa delle persone della sua etnia. Questa è la ragione per cui era importante girare le scene sul posto dove tale popolazione esiste davvero, perché tutti quei volti, con quelle fattezze, sono anch’essi condannati dalla storia a ogni tipo di discriminazioni. Non potevo andare lì e banalmente chiamare delle comparse. Ho fatto un casting preciso di ogni singolo essere umano che si vede davanti alla macchina da presa, perché era importante che tutto questo venisse fuori come stai dicendo tu. La faccia di Ismail, il suo corpo e la sua voce sono come dei ponti che ci portano da un’altra parte e che noi dobbiamo attraversare lungo la durata del racconto.
Tra l’altro, quando fai vedere i volti in Pakistan mi sono ricordato la lezione del cinema russo in cui le facce rimanevano scolpite nell’inconscio. Non è banale scegliere un volto e inquadrarlo alla stessa maniera. Inevitabilmente, quindi, il pensiero va ai bravi Basir Ahang e Tihana Lazovic che interpretano Ismail e Nina. Come li hai scelti?
Basir l’ho conosciuto attraverso la lunga fase di casting. Per mesi con Laura Muccino abbiamo setacciato il mondo, ricevendo provini da ogni continente, ma poi sono stata fortunata perché Basir abitava in Italia e lui, oltre a essere un giornalista, è anche un poeta, per cui abbiamo lavorato sul copione come fosse carne viva. È stata una sensazione molto forte, perché in quella fase raggiungevo la certezza che ciò che avevo scritto rispondeva alla memoria e all’esperienza di Basir e dei tanti ragazzi che ne frattempo avevo incontravo. Per Tihana, invece, avendo visto Sole alto, sapevo che Nina poteva essere solo lei. Ovviamente insieme a Laura abbiamo incontrato altre attrici, ma per me lei era il personaggio, perché il suo volto portava in faccia la bellezza e le ferite delle cose successe da noi, in Europa. Avendo una lingua madre diversa dall’italiano mi piaceva che si incontrasse con Ismail in un territorio terzo. Per questo doveva essere un personaggio di confine.
I personaggi comunicano spesso attraverso il loro sguardo. È stato un processo lungo quello degli attori per trovare i personaggi, e ancora sono ricorsi all’istinto oppure hanno lavorato di sottrazione?
In realtà nessuno dei due modi. Abbiamo lavorato molto sulla costruzione dei personaggi provando per mesi prima di andare sul set con Basir. Al di la del dramma del popolo Hazara bisognava costruire una psicologia. Ismail non è Basir e viceversa, per cui lo sforzo è stato quello di entrare nella testa e nel carattere di un personaggio volitivo, deciso, un giovane uomo che si è preso responsabilità fin dalla giovane età. La stessa cosa per Tihana: lei aveva meno spazio per tirare fuori le cose, quindi il suo lavoro è stato di una precisione millimetrica. Abbiamo quindi costruito il personaggio attraverso i dettagli. Se noti, all’inizio la vediamo tutta coperta e alla fine è quasi senza vestiti, a testimoniare la sua apertura verso un possibile amore.