L’artista e fotografo Richard Billingham presenta Ray & Liz, il suo primo lungometraggio in concorso al Locarno Festival. L’autore inglese scrive e dirige un film autobiografico, mettendo al centro della storia i ricordi della sua vita familiare nelle case popolari della periferia di Birmingham in Inghilterra e, in particolare, le figure genitoriali: il padre Ray, alcolizzato; la madre Liz, obesa, tatuata, fumatrice accanita e appassionata di puzzle.
Nato come artista multimediale, Billingham insegna arte all’università, gli sono stati insigniti numerosi premi per la fotografia e molte sue opere fanno parte della collezione permanente del Tate, del Victoria e Albert Museum e del Government Art Collection di Londra, i cui soggetti sono quasi sempre la sua famiglia e le periferie della città dove è nato e cresciuto. Il progetto filmico, dunque, nasce da questo milieu personale. Del resto, prima di arrivare al lungometraggio, Billingham ha diretto una serie di cortometraggi con al centro il padre Ray (e in qualche modo sono stati lavori preparativi per Ray & Liz).
L’incipit di Ray & Liz è l’inquadratura di un vecchio che dorme in una stanza sporca, con le mosche svolazzanti, che si sveglia solo per fumare e bere la birra fatta in casa da un giovane amico. Compie gesti semplici e misurati, stanchi, ma che donano un senso di appagamento e il suo sguardo si perde verso la piccola finestra che inquadra un cielo azzurro. Senza soluzioni di continuità, si passa in una casa malandata di una cittadina e vediamo un uomo e una donna con due bambini piccoli. Inizia così un lungo segmento di vita della coppia.
Il regista inglese sceglie come registro narrativo una focalizzazione specifica, prendendo il punto di vista del padre che praticamente ripensa in flashback alcuni episodi del passato. Lo sguardo del personaggio è sognante e la messa in scena, pur prediligendo per la maggior parte della durata del film riprese in interni, grazie alla fotografia sovraesposta e con effetto flou di Daniel Landin, apre l’immagine facendo scomparire qualsiasi elemento claustrofobico. Anche nel segmento in cui il figlio minore è cresciuto e non va a scuola, ma si perde nel vedere gli animali dello zoo, le riprese in esterno rimangono sospese in uno spazio fluido, rendendo il confine tra interno ed esterno quasi omologo e non divisivo.
Billingham è attento ai dettagli, anche ai più luridi come, ad esempio, le feci del coniglio di casa sparse su un divano sfondato, la patina di grasso nero che colora la bianca cucina, i muri scrostati, il vomito del fratello di Ray dopo che si è ubriacato. C’è una cura del profilmico che compone l’immagine come se fosse un quadro iperrealista. Se da un lato Ray & Liz ha dei debiti con il cinema sociale inglese, in particolare quello di Mike Leigh e di Ken Loach, dall’altro Billingham si discosta da queste radici andando oltre, entrando nel campo del sogno e della memoria, come abbiamo evidenziato poc’anzi. Ma se esteticamente Ray & Liz risulta essere opera impeccabile, ci lascia interdetti questa glorificazione di una vita il cui unico scopo è fatta di sopravvivenza senza mai cercare di elevarsi.
Intendiamoci bene: in Ray & Liz non c’è una rappresentazione di un’esistenza di individui che non hanno nulla, dove la loro vita è degna come quella di qualsiasi altro, ma una sognante messa in scena di quanto fosse bello tutto il disagio e la povertà vissuta dai protagonisti. Quello che contestiamo apertamente nell’opera di Richard Billingham è la forma estetizzante che vuole far passare come bella una vita fatta di sacrifici e apatica, quasi vegetativa, subita acriticamente e senza porsi domande o cercare una soluzione diversa, praticamente l’accettazione passiva della realtà imposta loro.
Certo questo è il punto di vista del personaggio, ma Billingham non registra un dato di fatto in modo oggettivo, ma ne dà un giudizio personale collimando con il suo alter ego paterno. Questo è lecito, così come possiamo apprezzare le capacità artistiche del regista, ma il cinema è fatto di forma e contenuto e la loro relazione è fondante per la materia filmica che lo spettatore interpreta e affronta con lo sguardo.