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Asian Film Festival: Thirst, mescolanze di generi ed essenze

Il coreano Park Chan-wook, autore dell’indimenticabile trilogia della vendetta e vincitore nel 2004 a Cannes del Gran Prix Speciale della Giuria proprio per Old Boy, presenta sul grande schermo dell’Asian Film Festival “Thirst”, Premio della Giuria a Cannes nel 2009.

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Il coreano Park Chan-wook, autore dell’indimenticabile trilogia della vendetta e vincitore nel 2004 a Cannes del Gran Prix Speciale della Giuria proprio per Old Boy, presenta sul grande schermo dell’Asian Film Festival Thirst, Premio della Giuria a Cannes nel 2009. Nel suo ultimo capolavoro visivo, Park Chan-wook torna a esplorare con stile inconfondibile, questioni etiche amletiche ed estreme, insolubili se non attraverso il martirio, calandole in personaggi dove la distinzione tra bene e male è tutt’altro che manichea. Il giovane prete Sang-hyun (Song Kang-ho), amato e rispettato dalla sua comunità di credenti, parte per l’Africa, intenzionato ad aiutare la ricerca medica per trovare il vaccino di una malattia mortale e infettiva. Contagiato durante gli esperimenti, viene miracolosamente salvato da una trasfusione di sangue che lo riporta in vita, diventando così oggetto di culto. Ma l’illusorio miracolo si rivela essere per Sang-hyun un germe malato che lo trasforma in un vampiro, trascinandolo in un vortice di depravazione e malvagità.

Con divertenti e stomachevoli scivolamenti nel gore, Park Chan-wook non si prende sul serio nel trattare il genere vampiresco, usato perlopiù come pretesto ironico per affrontare le contraddizioni che albergano nell’animo umano, e sostenuto da un eccellente mezzo di contrasto scelto per enfatizzare il maligno, la Chiesa, portatrice ‘sana’ di valori altamente caritatevoli, mostrata al pubblico senza veli e ricolma di imperfezioni e debolezze.

Liberamente ispirato a Teresa Raquin di Emile Zola, Thirst riprende la struttura narrativa del romanzo, il numero dei protagonisti (quattro), la caratterizzazione dei personaggi e le rispettive relazioni, caricandole delle tinte rosse (colore predominante) appartenenti al mondo oscuro dei vampiri e alleggerendo il dramma con una blasfemia caricaturale funzionale alla storia.

Infettando il prete – figura donatrice per eccellenza – con lo spirito del vampiro – sanguisuga di mestiere – Park Chan-wook crea un essere immondo, dilaniato dalla lotta tra l’istinto umano da tutelare e la bestialità che lo pervade. Luci e tenebre caratterizzano l’animo dei personaggi: diventato un abile ladro del sangue altrui (condizione essenziale per la sopravvivenza), abbandonato alla lussuria più sfrenata con la moglie dell’amico Kang-woo (Shin Ha-kyun), Sang-hyun non è molto diverso dalla trasandata e bistrattata ‘servetta’ Tae-ju (Kim Ok-bin), apparentemente vittima di una suocera crudele e di un marito idiota dietro cui si cela, in realtà una dark lady spietata e perversa; o da Lady Ra (Kim Hae-sook), madre tanto amorevole da diventare apprensiva e soffocante nei confronti del figlio e della nuora. Mentre il trio prete-amante-suocera oscilla tra luci e ombre riprendendo l’equilibrismo del film, giocato su diversi filoni e toni, Tae-ju è l’unica vittima del quadretto famigliare, necessario catalizzatore della folle e rovinosa storia d’amore, nonché materializzazione dello schiacciante senso di colpa, essere inconsistente e sottile da vivo, pesante e ingombrante come un macigno da morto. E come ogni buon conflitto che si rispetti, le trame della storia convergono verso l’ineluttabile conclusione, poeticamente splatter, che impone una scelta di priorità a  Sang-hyun.

Sebbene la trasgressiva metafora dell’eterna lotta tra bene e male sia piuttosto scontata nelle sue linee evolutive, il film eccelle per la qualità delle immagini prive di sbavature. La ricercatezza della costruzione scenica operata dal regista (impareggiabili le scene del prete colto nel momento in cui si attacca alla flebo di un infermo per succhiarne il sangue o gli ambienti diurni creati attraverso il perfetto ed eccessivo biancore dove si muovono i vampirizzati coniugi), l’uso degli oggetti per veicolare emozioni e per travalicare i confini nazionali a favore di una forte ibridazione culturale, gli originali movimenti di macchina attraverso cui lo spettatore è introdotto nei quadri scenici, il trattamento del sonoro con cui si sottolinea il centrale scambio di liquidi, sono prove inconfutabili circa la padronanza del mezzo cinematografico posseduta dal regista.

Dopo aver de-costruito mito, romanzo e spirito religioso, riportando nella sua storia solo l’essenziale, Park-Chan wook ha imposto a Thirst il suo marchio di fabbrica grottesco, febbrile e vizioso, inserendo gli assetati ed egoisti corpi difettosi e beffati dal destino in una dimensione visiva spettacolare e impagabile.

Francesca Vantaggiato

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