L’efferatezza ribelle di Van Gogh è, sicuramente, l’espediente artistico che intrappola lo spettatore nella rete di significati metaforici disseminati in ogni sua tela. È proprio quel tocco di classe – che lo contraddistingue da tanti altri pittori – a portarlo ad essere piuttosto l’Artista per eccellenza. Un uomo fatto di pelle, ossa e sensibilità esasperata, e, quindi, ridicolizzato, emarginato e rifiutato sin nel nucleo familiare, perché ritenuto nient’altro che il rimpiazzo di un figlio morto. Un Vincent Van Gogh che sopperisce al prematuramente scomparso Vincent Van Gogh. Una personalità introversa e spigolosa che trova sollievo e conforto solo nelle braccia del fratello Theo, l’uomo a cui l’artista scrisse migliaia di lettere, l’amico a cui confidò le sue emozioni, il sostenitore a cui legò la sua carriera in modo indissolubile. La sua vita si svolse in un crescendo sinusoidale di inquietudine, euforia e depressione, alternando momenti di pura follia a isolamenti mistici ed esoterici. Per tutta la sua esistenza, egli cercò l’infinito tra il cielo e i campi di grano, indagando l’assolutezza che si nascondeva nel volo degli uccelli, nella solitudine degli alberi, nelle distese immense di semine e raccolti. Studiò gli umili e impresse sulla tela le loro azioni, enfatizzando il carattere popolare del loro sguardo e la loro genuina semplicità. Era sicuro che proprio in loro si potesse rintracciare quel senso di frenesia religiosa che tanto auspicava di possedere. Van Gogh fu un’anima irrequieta, sempre. Fuori dagli schemi e dall’ordinario, lontano dalla morale bigotta e conformista e avverso al perbenismo stantio e nauseante, lottò sempre per affermare sé stesso, anche se legato, anche se rinchiuso, anche se privato degli spazi aperti che tanto amava. Proprio per questo, la nobildonna olandese Helene Kröller-Müller trovò nell’artista la voce della sua stessa esistenza disperata e ne condivise la grafia irrequieta di esseri tristi e insoddisfatti. Di outsider. Infatti, dopo aver viaggiato in Italia e averne visto i capolavori rinascimentali, la donna decise di diventare la mecenate dell’artista ormai scomparso, ma ancora capace di esprimere le sue emozioni semplicemente con il colore. O con la sua assenza.
Dopo il successo di Loving Vincent, dunque, Nexo Digital porta sul grande schermo Van Gogh tra il cielo e il grano, un’opera documentaristica interessante e coinvolgente, che sfoggia le opere esposte nella Basilica Palladiana di Vicenza. Avvalendosi della performance di Valeria Tedeschi Bruni, il film diretto da Giovanni Piscaglia, inizialmente, racconta la storia di Helene Kröller-Müller, spiegando la motivazione dell’allestimento del museo lontano dai rumori della città ma immerso nella natura rigogliosa alle porte di Amsterdam. Realizzata la cornice, utilizza poi le musiche originali di Enzo Anzovino, per condurre lo spettatore a conoscere da vicino Van Gogh, in una sorta di mise en abyme ben congegnata. I fotogrammi si susseguono vorticosi e mostrano il cambiamento di stile dell’artista: dai colori terrosi della sua giovinezza, alle tonalità accese e alle pennellate frenetiche della sua maturità, fino ad arrivare alla realizzazione di cieli che sembrano inghiottirne l’anima, rivelando il suo io lirico devastato, stanco e afflitto. A questo punto, la sua ultima opera d’arte è un colpo di rivoltella ben piazzato, uno stratagemma necessario a fondare quel mito dell’artista bohémien che tutti avevano contribuito a creare.