Non poteva mancare in un Festival femminile, e al femminile, come Sguardi Altrove una riflessione sul tema della violenza sulle donne, a cui viene dedicato il pomeriggio della sesta giornata. Tre i lavori presentati in sala: Cristallo di Manuela Tempesta, Ma l’amore c’entra? di Elisabetta Lodoli (entrambi nella sezione Frame Italia), Futuro è donna di Jo Squillo.
La fragilità del cristallo non è una debolezza ma una raffinatezza: inizia così, con questa citazione a Into the wild, il corto di Manuela Tempesta. Quindici minuti appena, di grande intensità, in cui è riuscita a condensare il presente nella vita di Elena (Daphne Scoccia, bravissima attrice esordiente), insieme al passato recente che l’ha condotta in ospedale. Dice di essere svenuta e non ricordarsene, ma noi sappiamo che non è così, perché la storia si apre proprio con una sua fuga disperata, inseguita dai passi minacciosi di un uomo. In un solo quarto d’ora l’autrice si concede anche più flash-back, attraverso i quali assistiamo all’innamoramento per Marco, alla coppia che nasce, a qualche momento di intesa, finché gelosia e cattiveria esplodono.
Abbiamo letto in rete che il corto indaga sui meccanismi che innescano la violenza. Diremmo proprio di no, non ce ne sarebbe nemmeno il tempo. Al contrario, con un finale aperto, prospetta due possibili soluzioni: quella della denuncia e l’altra, seguita da tante donne, purtroppo, della paura, della prigionia, fino alle tragedie estreme. Lo fa affiancando a Elena un’altra donna, la dottoressa Sofia (Giglia Marra); con lei, sì, che Elena potrebbe aprirci, se solo ci riuscisse.
Due diversi modelli di comportamento, senza vie di mezzo, senza sfumature, e il messaggio risulta più diretto. Va benissimo così perché solo così il lavoro può essere utilizzato dalle scuole (come già avviene) in maniera più efficace. Non ci interessa, qui, sapere perché Marco è violento (è un suo problema, una sua trappola psicologica); ci interessa difendere Elena, proteggere lei e le altre donne che come lei si fanno vittime, spesso proprio cercando di capire le debolezze dell’uomo che le maltratta.
Andare a fondo delle ragioni maschili di chi aggredisce le proprie donne, invece, è l’obiettivo del documentario di Elisabetta Lodoli, Ma l’amore c’entra? Film coraggioso, perché mette in scena le voci e i corpi di tre uomini che con estrema sincerità si raccontano. Voci, corpi, e volti, in realtà appartengono ad attori, ma schermati od oscurati in modo tale da sembrare più veri del vero e creare un effetto di credibilità, amplificato, che cattura. Non c’è giudizio da parte di chi li riprende, bensì un ascolto attento. Nessuno a far domande, nessuna falsa intervista: ma il loro stesso interrogarsi, da soli o nel gruppo, su cosa possa essere accaduto, e perché, nel momento in cui la rabbia non sì è più contenuta, trattenuta.
Tra loro, chi ha assistito a scene di violenza in famiglia per colpa del padre, chi ha avuto al contrario genitori sereni, (vediamo le scene familiari nei video d’epoca a ricordare una felicità perduta, ma ancora possibile). Questi confronti col passato sono importantissimi a sottolineare che le azioni non sono sempre effetto di cause remote, e quanto un pensiero deterministico possa essere dannoso. Infatti, i tre uomini che si raccontano e ci raccontano sono alla ricerca del perché, ne sono attratti, ma non di un perché assolutorio che azzeri le colpe, e più ancora perseguono il come. L’amore del titolo esiste, e in nome di questo, sopraffatti dai primi episodi di aggressività della quale non si sarebbero sentiti capaci, hanno cercato aiuto concreto. In questo caso al centro LDV-Liberiamoci dalla Violenza dell’Usl di Modena, cha lavora per proteggere le donne, e anche per accompagnare i loro compagni in un processo di cambiamento.
I tre uomini ripresi da Elisabetta Lodoli, se pure le storie siano recitate (autentici i testi, però), sono già su una buona strada perché consapevoli dei primi sintomi di violenza, che non hanno frettolosamente sottovalutato. Per renderci queste storie esemplari, ma non così necessariamente lontane, la macchina da presa alterna le persone con i video del passato, con i paesaggi della loro vita presente, gli esterni con gli interni, e seleziona oggetti quotidiani nelle loro case, come il manifesto del Bacio rubato di Doisneau alle pareti, e i mobili ordinari e per questo più suggestivi. Ad ammonire che, per capire quando non si riesce più a gestire le proprie nevrosi, non si deve aspettare l’irreparabile e che le emozioni vanno riconosciute prima di essere agite.
Il futuro è donna (Sezione Diritti umani oggi) di Jo Squillo riprende il titolo del film di Marco Ferreri del 1984, che era stato un inno all’autosufficienza femminile rispetto a un maschio nevrotico e insulso. Chi avrebbe immaginato, allora, che nel 2018 avremmo dovuto ancora rivendicare diritti, scontatissimi negli anni Ottanta, fino quasi a sconfinare nell’eccesso opposto!
Tuttavia il documentario di Jo Squillo, con donne che sono sopravvissute alla morte per mano dei loro compagni e altre che urlano in piazza quanto il futuro sia donna (nonostante i fatti dicano il contrario) è una sferzata di energia e vitalità. Ce n’è bisogno, ogni tanto.