Daphne Du Maurier è la madrina delle eroine chiaroscurali, a metà tra santità e dannazione, capaci di mantenere il segreto della propria essenza senza lasciarne trapelare alcun dettaglio incomodante. È la scrittrice che ha ispirato grandi registi come Alfred Hitchcock per Rebecca – La prima moglie e Paul Thomas Anderson per Il Filo Nascosto. È, insomma, l’autrice di romanzi enigmatici e misteriosi che suscitano ammirazione e sgomento nei lettori. Difficile provare empatia per i suoi personaggi, infatti, ma assolutamente impossibile rimanere indifferenti alle loro storie di vita.
My cousin Rachel, già trasposto per il grande schermo nel 1952 da Henry Koster, viene scelto anche da Roger Michell (regista di Notting Hill) per il suo moderno adattamento cinematografico. L’artista affida a Rachel Weisz (già protagonista di pellicole come Agorà e La mummia), un’attrice intraprendente e camaleontica, l’arduo compito di incarnare le ambiguità del personaggio pur mantenendo un atteggiamento sobrio e scostante. Proprio la scontrosità e la pacatezza di Rachel caratterizzano il suo ruolo, ne enfatizzano le ombre, ne esaltano le spigolosità. Inizialmente timida e remissiva, la donna si trasforma ben presto in una matrona forte e risoluta che si impossessa della casa e della vita dei suoi abitanti, sconvolgendone le abitudini stantie. Le stanze buie e polverose di una dimora abbandonata vengono, così, illuminate dalle luci delle candele, soffuse, altalenanti, sensuali. Il cono di luce delle pareti si espande lentamente sul viso della donna, sul suo collo, sulla sua collana di perle che diviene ben presto l’estensione della sua figura: elegante e raffinata eppure estremamente delicata. Ed è soprattutto la sua fragilità a scatenare l’ossessione del cugino (Sam Claflin), a stimolarne il capriccio compulsivo e ad animarne la sessualità pulsante. Divenendo quindi oggetto del desiderio, Rachel diventa anche parte del paesaggio circostante che vede contrapporsi le malinconiche scogliere della Cornovaglia e i bucolici prati fioriti. Ma il dubbio sulla spontaneità e sulla naturalezza della protagonista si insinua lentamente nell’animo dell’uomo, portandolo a dubitare di lei, della natura dei suoi sentimenti e persino del suo aggraziato portamento. La mancanza di risposte certe, ne corrode però anima e corpo, tanto da portarlo a sospettare anche di sé stesso e della sua moralità. Pazzo d’amore e di gelosia, egli diventerà allora un uomo completamente diverso, un adulto capace di impugnare la sua vita e di portare la pellicola a prendere una piega completamente inaspettata.
La Rachel di Michell, dunque, si rivela una buona favola gotica incentrata non soltanto sulla prestanza fisica e artistica di un’ottima attrice, ma anche sulla graffiante fotografia di un Mike Eley (già direttore della fotografia di Love Actually e United 93) in stato di grazia.