Chi da sempre si nutre di cinema, respirandolo quasi, come fosse immerso in un liquido amniotico che gli penetra i polmoni, potrebbe, in un certo senso, rischiare di non riuscire più a distinguere nettamente la realtà e la rappresentazione di essa, laddove la soglia che separa la verità dalla finzione tende ad assottigliarsi a tal punto da rendere impossibile una chiara separazione dei due estremi.
Quello di Michele De Angelis è, prima di qualsiasi altra considerazione, un atto di amore viscerale per la Settima Arte, che nel mediometraggio L’uomo nella macchina da presa vive in maniera palpitante, traboccando quasi da ogni singola inquadratura e coinvolgendo immancabilmente lo spettatore che coltivi una passione anche minima per le immagini in movimento.
Senza evocare l’immediata assonanza con la riflessione vertoviana, si può senz’altro rintracciare nel film la viva suggestione prodotta da uno dei capolavori di Michelangelo Antonioni, Blow up (1966), in cui un disincantato fotografo di moda, interpretato dal giovanissimo David Hemmings, si ritrovava a fare i conti con l’improvvisa emersione di una realtà che non aveva previsto e che ne sconvolgeva inesorabilmente l’esistenza, costringendolo a rimodulare la percezione del mondo e dell’ordine simbolico in cui era catturato. E non può non saltare all’occhio anche una certa e nobile analogia con il recente e assai significativo Prisoner (2013) di Denis Villeneuve. Queste citazioni, è bene precisarlo, non solo non sminuiscono il valore de L’uomo nella macchina da presa, piuttosto, semmai, rendono conto della capacità del regista di metabolizzare quel cinema al fine di dare corpo a un fuori campo, cui il film non cessa di rimandare, dove lo spettatore può fare un’esperienza liminale: se, da un lato, la combustione della pellicola, che, assieme ai titoli di testa, apre la narrazione, ci ammonisce sull’evanescenza della rappresentazione, dall’altro, di contro, il ritornare costante di quest’ultima (la rappresentazione) sotto forma di infinita ripetizione, dà corpo a una piega, una vertigine hitchockiana in cui si sprofonda, segnalando in tal modo la sua ‘intoglibilità’. Non è quello di De Angelis un fatuo e gratuito gioco di scatole cinesi ordito al solo scopo di disorientare, quanto piuttosto un eroico tentativo di porsi al confine tra visibile e invisibile, anche se, poi, questo luogo-non luogo non trovi (non può trovare) una reale presentazione che lo mostri. Esso risiede nell’indiscernibilità del movimento vorticoso che si compie all’interno di un nastro di Möbius in cui magicamente si realizza il gioco di prestigio che, senza dare possibilità di essere colto, scandisce il continuo permearsi di rappresentazione e realtà, di messa in scena e vita, di, per dirla con i lacaniani, simbolico e Reale.
Un’inquietudine, alla fine, sembrerebbe aleggiare su questa impasse: L’uomo nella macchina da presa, evocando l’incorporazione del soggetto all’interno del dispositivo, segnala il decisivo slittamento dalle dinamiche dialettiche a quelle di un piano d’immanenza che impone una rielaborazione ontologica dello spazio e del tempo. Ciò che si cerca titanicamente di cogliere è un divenire cui bisogna abbandonarsi, un movimento imprescindibile che è quanto di più vitale è contenuto in noi: “Fare e disfare è tutto un lavorare”, scriveva Dino Campana, ma d’altronde l’inerzia, sebbene apparentemente rassicurante, è quanto di più inaridente e mortifero possa capitarci.
Da segnalare il cast, composto da Paolo Triestino, Maurizio Merli, Sophia Kiriakidou, Roberta Crolle, Pierluigi Ferrero, Federico Bava (e un cameo di Cristiana Astori nei panni di se stessa).