A forza di farlo notare, qualcosa inizia a muoversi. Accusato di non essere abbastanza coraggioso quando si tratta di uscire fuori dalla propria zona di comfort, il cinema italiano ha trovato il modo di cimentarsi in un genere come quello del fantasy, che fino a qualche tempo fa gli si credeva precluso per mancanza di mezzi. A tracciare il sentiero è stato soprattutto il successo imprevisto di un film come Lo chiamavano Jeeg Robot, che, al di là di ogni considerazione, è servito a dimostrare quanto attraverso le idee si possano colmare i limiti imposti dalle ristrettezze finanziarie.
È con questo spirito che Marco Renda ha affrontato il suo esordio cinematografico, nel momento in cui ha deciso di raccontare l’universo di Edhel, la piccola protagonista da cui il film prende nome. Nata con un malformazione del padiglione auricolare che la rende simile agli elfi della mitologia nordica, e per questo derisa dai compagni di scuola che non perdono occasione per farle notare la sua diversità, la bambina si rifugia presto in un mondo immaginario (in parte derivato dal canone imposto dal Silmarillion tolkeniano); un universo che, a un certo punto, sembra però prendere il sopravvento, indirizzando l’opera su un binario che s’adopera per tenersi in equilibrio tra una dimensione ideale dell’esistenza e una più concreta. È in questa continua oscillazione fra elementi tratti dalla vita ordinaria – quelli legati ai problemi dell’infanzia e di una famiglia segnata dalla prematura scomparsa di uno dei genitori, e quelli relativi alla presunta natura della protagonista, quali la presenza di un mondo alternativo, individuato dal bosco situato ai margini del maneggio, frequentato dalla bambina e dalla sensibilità preveggente del cavallo da lei montato – che Renda mette in mostra la capacità di saper fare di necessità virtù. Non potendo contare sui budget milionari dei colleghi americani, il regista lascia al fuori campo il compito di evocare l’immaginario che in altri film viene mostrato con le possibilità della CG e che qui, in felice opposizione, è sostituito dalla capacità di incanalare le manifestazioni del fantastico nel tessuto del quotidiano.
Così facendo, disegni, spade di plastica, fumetti e animali, come pure gli esseri umani con le loro contraddizioni, si trasformano all’occhio della macchina da presa nelle corrispondenti figure buone e cattive delle fiabe tecnologiche. La vera bellezza di Edhel sta, così, nel suo essere alieno – nella fattispecie scientemente minimale – alla maggior parte del fantasy contemporaneo, dal quale si distacca per un ritmo narrativo più intimo e compassato, attento ai segnali psicologici, da un lato, e alla compostezza bucolica dell’ambiente, dall’altro: in altre parole scevro dai tipici assalti sensoriali cui da decenni siamo abituati.
tolkienParliamo, dunque, di un esordio interessante e per lo più esente dalle ingenuità sovente riscontrabili nelle opere prime. Ed è forse proprio tale insolita maturità del dispositivo utilizzato da Renda a creare qualche scompenso quando, ad esempio, si tratta di lasciare andare la recitazione degli attori, qui in qualche modo frenati nella loro naturalezza da un intercalare spesso artificialmente assertivo che ne irrigidisce l’espressività. Una mancanza veniale, che poco toglie alla bontà della loro prova (da segnalare la non comune corrispondenza fotogenica tra la piccola Gaia Forte e Roberta Mattei) e, più in generale, alla riuscita complessiva del film.