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Che fine ha fatto Osama Bin Laden?

«Dopo “Super size me”, Morgan Spurlock alza la posta con un documentario che svela con chiarezza, e perfino con senso dell’umorismo, quanto siano infondate le vulgate intorno ai popoli islamici».

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Il pretesto della folle caccia all’uomo più ricercato del mondo offre al regista e coautore di Che fine ha fatto Osama Bin Laden?, Morgan Spurlock, gli spunti per osservare realtà diverse da quella americana, che i media occidentali ritraggono nei modi più distorcenti, per aumentare il senso di paura della popolazione occidentale, e drenare il consenso verso le moderne guerre coloniali che si sono autoproclamate contro il terrore globale, come se l’invenzione nominalistica potesse tramutarle in altro da sé.

Spurlock non esamina le reali motivazioni che sono alla base della guerra al terrore, ma svela con chiarezza, e perfino con senso dell’umorismo, quanto siano infondate le vulgate intorno ai popoli islamici. Questo documentario è una sorta di viaggio alla ricerca di ciò che accomuna, nella convinzione che le similitudini tra gli uomini conservino il segreto della convivenza e della pace. In realtà questa suggestione appare poco realistica e, a ben guardare, lo stesso film ne svela i limiti. Nel momento in cui il regista si trova ad intervistare gli israeliani ortodossi o quelli delle colonie emerge con chiarezza quanto la posizione politica e culturale della gente comune sia intimamente aggressiva e distante nei confronti del proprio simile palestinese. La pretesa di poter abitare una terra altrui nel nome della promessa di un dio è un delirio che nessun medium occidentale ha creato, ma che alligna nelle coscienze di moltissimi ebrei.

Spurlock, probabilmente, avrebbe riscontrato la stessa fondamentale aggressività verso l’altro se avesse scavato nell’animo della profonda America, alla ricerca di quanto siano radicate le pretese di consumo, ben oltre le reali capacità produttive del paese. Tuttavia, eseguita questa operazione di tara rispetto ad un certo ingenuo positivismo che fa da sfondo all’operazione del documentario, il film resta pur sempre una testimonianza del tentativo di emancipazione di un uomo ricco, bianco, occidentale dalla propria condizione di sfruttatore, coloniale, guerrafondaio. È l’espressione di un progressismo statunitense che svolge il meritevole compito di confermare che, almeno sul piano sovrastrutturale, è possibile una presa di coscienza in merito ai limiti del capitalismo o, quantomeno, delle sue politiche più aggressive di stampo liberista, che sono state pervicacemente perseguite ed impersonate prima da Reagan e poi dalla famiglia di petrolieri texani Bush. Questa premessa costituisce lo spirito del documentario.

E’ possibile affermare, tuttavia, che, anche prescindendo dalle ingenuità degli autori, al fondo della visione, quasi per sedimentazione spontanea ed involontaria, resti un nucleo di immagini, fatto di facce, sguardi, frasi rubate, intonazioni di voce che, sfuggite al racconto preventivato in sceneggiatura, restano a testimoniare le speranze, la rabbia, la forza che pervade le moltitudini che abitano le periferie dell’impero e che sfuggono ai racconti precostituiti, rilanciando domande, questioni cui lo spettatore avveduto deve trovare risposte, scavando nelle contraddizioni e contrapposizioni create dai sistemi produttivi, senza assicurarsi aprioristicamente consolatorie illusioni.

Pasquale D’Aiello

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