Un’opposizione di caratteri tanto radicale da non poter non rivelare, nello sviluppo narrativo, più affinità che divergenze; un personaggio femminile di mero valore strumentale per costringere i due protagonisti a unire le forze; e il paesaggio della frontiera che proprio in quegli anni mutava inesorabilmente volto, toccato com’era e irrimediabilmente mutato dalla presenza occidentale: un’epoca dunque di tramonto, esplicitamente rappresentata nella malattia terminale che affligge il vecchio capo indiano sconfitto, avviato a morire sulla terra avita in virtù della graziosa concessione del nuovo padrone di quel vasto paese, il presidente americano, che ormai interamente lo governa tramite il suo esercito, impersonato qui da Blocker, la cui divisa blu raffigura cromaticamente l’avvenuta presa di potere degli yankee sull’America, dall’Atlantico al Pacifico
Le ambizioni autoriali sono alte e il modello di riferimento è il western classico hollywoodiano, quello di John Ford in primis (al cui celebre Sentieri selvaggi sembra rimandare la sequenza d’apertura), genere fra i più rappresentativi del cinema d’oltreoceano, ma afflitto ormai da decenni da una crisi dalla quale non ha saputo uscire. Prova a rinverdire questi fasti Hostiles di Scott Cooper, nettamente impostato su una struttura regolare e appunto classica, dove, come sopra si accennava, a dominare è il confronto fra due personalità antitetiche costrette dalle avverse circostanze a cooperare e, insieme, quello fra l’individuo e il paesaggio; visto dal Blocker come terra di una conquista ormai avvenuta, da Falco giallo come patria per sempre perduta.
Strumentale si è definito il personaggio femminile in quanto da subito presentato come bisognoso di protezione (ha appena visto il marito ucciso dalla violenza dei Comanche) ed autentico pretesto per costringere i due antagonisti a far fronte comune contro la minaccia costituita da questa tribù. Il genere, è noto, impone protagonisti maschili, avvezzi alla violenza e al combattimento, e nel tentativo di girare un western classico, perfettamente in linea con le sue regole ispiratrici, Hostiles non si sottrae a questo topos. La presa d’atto della nascita di una nuova America trova chiara rappresentazione nella malattia terminale che mina l’attempato Falco giallo, da un lato; e dalla presenza, fra gli uomini di Blocker, di un soldato francese e di uno di colore, rappresentanti dell’allora attuale emigrazione europea nel Nuovo mondo e di quella forzata, già iniziata nell’età moderna, dall’Africa, dall’altro.
L’America nasce, dunque, sullo sterminio dei suoi abitanti autoctoni e tramite un apporto di popoli provenienti da altri continenti, senza tuttavia che ciò mini la supremazia anglosassone, che il capitano Blocker, esecutore fedele, sia pur controvoglia, degli ordini del governo di Washington, rappresenta. Hostiles è dunque ambientato alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra, al tramonto del mito della frontiera, in quanto è ormai stata raggiunta e non costituisce più un miraggio e un obiettivo, ma soltanto un possesso acquisito. Tuttavia, la durata non esigua non consente di affrontare e sviluppare pienamente questi temi, che anzi sembrano frettolosamente squadernati senza un autentico e necessario approfondimento. Forse tale mancanza, che non rende l’opera pienamente convincente, è dovuta in parte anche alla difficoltà di trattare, nel contesto di un genere oggi non più attuale come western, il tema fondante delle origini dell’America. Appare quanto mai arduo, oggigiorno, parlare del mito originario di una nazione attraverso gli stilemi di un genere che, piaccia o no, è uscito dalle abitudini di fruizione del pubblico, anche di quello americano, come dal suo orizzonte d’attesa quando s’accosta allo spettacolo cinematografico.
Certo, il cinema, specialmente quello d’Oltreoceano, è quasi nato col western: si pensi a The great train robbery (1903) di Edwin S. Porter, col suo assalto al treno portavalori da parte di tre banditi con tanto di cappello, stivali con gli speroni e pistole e condito ovviamente d’inseguimenti a cavallo nelle aree incolte fuori città (dunque al di fuori della civiltà) fra lo sceriffo e i suoi uomini, da un lato, e banditi dall’altro, con uno scontro finale immancabilmente risolto a revolverate. Il western appare dunque come il genere che rappresenta l’epica americana per eccellenza, il racconto della sua fondazione, il mito delle origini. Oggi tuttavia quello stesso genere che tanto ha contribuito in passato a plasmare l’immaginario cinematografico non solo statunitense, ed anzi ad esportarlo anche all’estero, non sembra più capace di parlare con quella medesima forza e di guardare a un passato di crimini e violenza con i medesimi lucidità e rigore.
Un film non troppo remoto che ha invece saputo mostrare il rapporto fra i coloni europei, segnatamente inglesi, e il Nuovo mondo, le ineliminabili differenze fra la culturale occidentale (anglosassone in specie) e quella indigena americana e lo sguardo di uno straniero su di una terra vergine e incognita è The new world – Il nuovo mondo (2005) di Terrence Malick, il quale ha però significativamente scelto un diverso periodo storico dove ambientare la sua opera, collocata infatti nel 1697, dunque all’inizio della colonizzazione europea della costa orientale americana, nel quale un incontro e persino una fusione fra le due comunità, i colonizzatori e i colonizzati, i vinti e i vincitori sembrava, per quanto arduo e da ambo le parti avversato e contrastato, ancora possibile ed attuabile; come il matrimonio celebrato fra la principessa indiana Mataoka, soprannominata Pocahontas (il nome della quale non viene tuttavia mai menzionato nel corso del film) e l’inglese John Rolfe (interpretato, forse non a caso, anche qui da Christian Bale) pareva suggerire.