Charles Dickens è, indiscutibilmente, il maestro del realismo moderno. Nessuno meglio di lui, infatti, è riuscito a descrivere in modo oggettivo la società inglese ottocentesca, bigotta e greve, guidata soltanto dalla logica del profitto. Bambini sfruttati nelle fabbriche e nelle miniere, costretti a lavori pesanti per 16 ore al giorno e soltanto qualche misero penny di guadagno. Oppressi dalla fame, dalle malattie e dalla povertà estrema, gli infanti sono stati il soggetto prediletto delle sue opere, il leitmotiv della sua intera vita. Avendo sperimentato sulla propria pelle la fatica e l’umiliazione di dover lavorare, pur essendo figlio di un gentiluomo, Dickens scrive di getto storie in cui si mescolano ricordi, prese di coscienza e (auto)commiserazione, lasciando ai suoi bambini la possibilità di esprimere le proprie emozioni, con la speranza che i lettori imparino dai loro stessi sbagli.
All’inizio della sua carriera, grazie ad Oliver Twist, Dickens era stato definito “autore del popolo” e “Shakespeare del romanzo” eppure, nel 1843, venne colpito da un blocco dello scrittore senza precedenti. Incapace di trovare l’ispirazione nel mondo che lo circondava, l’autore si indebitò fino al collo, rischiando il collasso. E poi, improvvisamente, un’antica leggenda irlandese di fantasmi stuzzicò il suo genio artistico e gli permise di comporre il suo più grande successo, A Christmas Carol. Non un canto di Natale come tanti, uno di quelli che gli scrittori pubblicavano prima delle ricorrenze per racimolare soldi facili. Dickens compose il Canto di Natale per antonomasia, quello che depurava la festività da ritualità pagane e commerciali per riportarla alle sue origini cristiane e umanitarie. E proprio la fase di composizione dell’opera è il soggetto di Dickens – L’uomo che inventò il Natale, un biopic interessante e coinvolgente firmato da Bharat Nalluri (autore del poco riuscito Il Corvo 3 – Salvation) che traspone per il grande schermo il romanzo The Man Who Invented Christmas: How Charles Dickens Rescued His Career and Revived Our Holiday Spirits di Les Standiford.
La narrazione avviene in prima persona, affidata a un soggettivismo esasperato, in cui il punto di vista dell’insicuro, piccolo, Charles condiziona quello del Dickens adulto, ormai un uomo affermato e di successo. Un bravissimo Dan Stevens, star indiscussa delle prime stagioni di Downtown Abbey, convive quindi con i propri incubi e con le proprie paure permettendo ai personaggi delle sue opere di prendere corpo e acquisire un’anima. La stessa che permea le pagine delle sue storie, che ne detta il ritmo e ne condiziona lo svolgimento, l’unica capace di intrappolare il lettore in una morsa senza precedenti. Combattendo con “il sangue di ferro e il cuore di ghiaccio”, i suoi protagonisti usano le unghie e i denti per aggrapparsi alla vita e per recuperare il buono che tutti nascondono dietro la maschera imposta dalla società. Come Scrooge (un magnifico Christopher Plummer), come Dickens, come ognuno di noi.
Con il cuore a brandelli e le lacrime agli occhi, quindi, gli spettatori possono riscoprire l’essenza del Natale e lasciarsi guidare dalle emozioni dimenticate.