Il corpo e l’anima dunque: il primo, imperfetto, offeso dalla deformità e brutalizzato dalla violenza che si consuma nel mattatoio; l’anima, capace, almeno in sogno, di liberarsi di quelle catene e di creare una realtà diversa e nuova, costruita contro le leggi e le convenzioni che imprigionano i personaggi in ruoli prestabiliti cui sembra impossibile sottrarsi. Il contrasto fra le due dimensioni non potrebbe essere più esplicito: se il lavoro di Endre consiste nel gestire un luogo di morte dove il corpo viene vilipeso e mercificato (poco importa se si tratti di quello animale) e quello di Mária nel controllare l’uniformità di quella struttura alle norme vigenti con asettica ed inflessibile precisione, nella dimensione onirica, essi s’incontrano sotto mutate sembianze: ogni notte, infatti, si rivedono come cervi in una foresta. Emancipati finalmente dalla gravezza della fisicità, i due possono scegliere in sogno la propria forma, assunta per sé e da mostrare all’individuo che, di contro a tutte le possibili differenze, si avverte come affine.
Queste le premesse, dunque, di Corpo e anima, un’opera quanto mai ambiziosa e colma di significato, girata con uno stile che ben s’adatta all’atmosfera algida e a tratti ostile che permea l’ambientazione del dramma. La fotografia di Máté Herbai è infatti quasi innaturale per la freddezza che la caratterizza: negli esterni prevale il bianco del paesaggio innevato, spezzato verticalmente dal bruno degli scheletri degli alberi isteriliti dal gelo e orizzontalmente dalle figure dei cervi, l’uno maschio l’altro femmina, a simboleggiare la coppia di protagonisti, che cercano sotto al manto nevoso qualche foglia da brucare; negli interni è di nuovo il livido e asettico biancore ospedaliero delle pareti del mattatoio, unito al pallido azzurro del camice indossato da Mária, a definire il cromatismo che informa l’opera. La forma si fa dunque significante in quanto esprime, attraverso tale scelta cromatica improntata a colori innaturali e privi di qualunque pastosità e calore, più che l’aridità interiore dei personaggi, quella esteriore che manifestano e adoperano come una corazza, un’armatura per difendersi dalla paura dei sentimenti, dal timore di rivelarli e di vederli rifiutati. La regia stessa s’incarica di rappresentare questa chiusura che attanaglia nel profondo i personaggi, la paralisi che quasi li costringe al mutismo e a un’ostentata indifferenza, attraverso una messinscena e un formalismo ispirati a un rigore e a una sobrietà che donano all’opera un pudore quasi virginale, una sincerità e una profondità tanto rara e autentica da sfiorare l’ascetismo.
Non è fuori luogo parlare, a proposito dello stile e del linguaggio di Corpo e anima, di una sorta di castità espressiva, in virtù della quale perfino le scene potenzialmente di più facile presa emotiva (come la macellazione degli animali) sono riprese con un distacco e un’asciuttezza tali da renderle non soltanto prive d’enfasi e di compiacimento, ma persino necessarie. Quanto viene negato, o si presenta di ardua realizzazione nella realtà, trova risarcimento nell’onirismo, dove l’individuo, inconsapevole dei suo stessi desideri, costruisce una dimensione alternativa plasmata sui propri sentimenti, in cui l’affinità elettiva s’informa al di fuori delle leggi umane che governano la quotidianità: ecco allora due esseri umani prender forma di maestosi cervi che si dividono il cibo e s’ammusano con tanta e tale intensità da far sembrare quell’atto un bacio scambiato fra innamorati. In tal senso, Corpo e anima potrebbe anche esser inteso come un elogio del sogno in quanto unico possibile risarcimento per una realtà che offende ed emargina l’individuo, confinandolo in una prigione, sia quella del corpo o della mente (si rammenti che Mària è affetta dalla sindrome di Asperger, un disturbo dello sviluppo da alcuni assimilato all’autismo, che tuttavia non compromette l’intelligenza, la comprensione e l’autonomia del soggetto).
Tuttavia, la regista non fornisce risposte univoche all’interrogativo di fondo che sostanzia l’opera: ovvero, l’affinità onirica che unisce i protagonisti può trasformarsi in un legame nella vita reale? La risposta, se mai fosse possibile, a una tale domanda, è affidata allo spettatore, che viene dunque chiamato a una visione attenta e consapevole. L’esplorazione dell’inconscio e dell’onirismo è qui condotta, come si diceva, attraverso una limpidezza di toni e una delicatezza d’accenti musicali (un ruolo determinante, al pari della regia e della fotografia, è svolto dalla rarefatta ed essenziale partitura pianistica di Adam Balazs) capaci d’introdurre lo spettatore, con un uso davvero minimo dei dialoghi, ridotti a poche e brevi battute, e col pudore e la cautela necessari, nell’interiorità dei personaggi: nel luogo più riposto del loro animo, che si manifesta dove le norme e le convenzioni quotidiane non valgono più, ovvero nel sogno, dove non siamo più costretti a recitare il ruolo impostoci dalla sorte, ma siamo noi stessi a decidere chi vogliamo essere, a chi vogliamo accostarci e svelare i nostri sentimenti. In tal senso, l’onirismo, che tanta importanza riveste nell’opera, può venir assimilato al cinema stesso, dove un autore decide i ruoli che i vari personaggi andranno a ricoprire indipendentemente da quelli assunti nella vita reale: come nella finzione cinematografica un attore interpreta di norma ruoli diversi e spesso antitetici, così nel sogno il direttore di un mattatoio e un’ispettrice sanitaria si rincontrano non già sotto vesti umane, ma quelle animali (non dissimili da quelli che sono quotidianamente costretti ad uccidere e a macellare), di una coppia di cervi, isolati in un ambiente fuori dal tempo come una foresta innevata. Del resto un’analogia fra i meccanismi del sogno e quelli del racconto cinematografico era già stata avanzata da Christian Metz nel fondamentale saggio del 1977, intitolato Cinema e psicanalisi: il significante immaginario (Le Signifiant imaginaire: psychalyse et cinéma). Come si vede, Corpo e anima di Ildikó Enyedi si rivela un’opera di rara profondità e consapevolezza del linguaggio cinematografico, saggiamente adoperato per svelare l’intimità più segreta dei personaggi attraverso l’utilizzo di un procedimento retorico quale l’allegoria, qui adoperato nella raffigurazione dei protagonisti nella forma non già di uomini, costretti in ruoli definitivi e immodificabili, ma di animali, uniti da un legame di coppia, fondato sulla cura e sulla difesa del compagno, che sembra precluso all’essere umano. Il film è stato meritoriamente insignito dell’Orso d’oro nel corso dell’ultimo festival di Berlino.