Nell’anno del Signore, un film del 1969, scritto e diretto da Luigi Magni e basato su un fatto realmente accaduto, l’esecuzione capitale di due carbonari nella Roma papalina. È il primo della trilogia proseguita con In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990); film nei quali ricorre il tema del rapporto tra il popolo e l’aristocrazia romana con il potere pontificio, tra gli sconvolgimenti accaduti nel periodo risorgimentale. Con Claudia Cardinale, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Robert Hossein, Alberto Sordi. La colonna sonora è del maestro Armando Trovajoli.
Sinossi
Nella Roma del 1825 i carbonari tentano inutilmente di sollevare il popolo contro il governo pontificio. Tra loro c’è Montanari, condannato a morte per aver attentato alla vita di don Filippo Spada, e tra loro c’è anche Cornacchia (Nino Manfredi), ciabattino analfabeta e un po’ vigliacco. Pochi sanno però che lui in realtà è Pasquino, l’anonimo autore delle satire contro il clero e i potenti.
Il saluto amaro, al popolo di Roma, del carbonaro nel momento che sta per affrontare il patibolo, è anche la frase che sintetizza gli umori e i sentimenti che questo film propone allo spettatore. Luigi Magni usa lo strumento cinematografico per proporre uno scampolo di storia, e non una storia qualunque, ma un periodo ben preciso, quel Risorgimento che è alla base del nostro stato italiano, che di fatto non vanta tradizioni secolari come quelle di altri nostri vicini. Poco importa che i fatti storici qui narrati non siano conformi del tutto a ciò che accadde veramente (ad esempio il cardinale Rivarola, che peraltro probabilmente era davvero quel sinistro personaggio interpretato nel film da un magistrale Ugo Tognazzi, pare che in realtà non fosse stato coinvolto nel processo ai due carbonari), perché quello che il regista ci vuol proporre non è certo una lezione di storia quanto piuttosto una riflessione sul potere e sui suoi meccanismi, un potere che per quanto odioso e repellente (e l’esempio scelto, ovvero il potere temporale del papato, è davvero emblematico: cosa ci può essere di più assurdo di un potere materiale nelle mani di chi dovrebbe occuparsi solo della spiritualità degli uomini?) alla fine vince non perché imposto dall’alto bensì per il semplice motivo che gode del (forse) inconscio appoggio del popolo e dunque del sostegno di chi da quello stesso potere viene oppresso. Il fatto storico alla base della pellicola è il processo farsa a Leonida Montanari e Angelo Targhini, affiliati alla Carboneria e rei di aver tentato di ammazzare un loro “confratello”, un nobile (“I nobbili fanno la rivoluzione come la caccia alla volpe, perché s’annoiano, mica perché je serve“) il quale, caduto in crisi di coscienza per la morte della figlioletta, aveva rivelato la sua appartenenza alla setta rivoluzionaria. Condannati a morte sulla base della testimonianza del traditore, sopravvissuto al tentativo di omicidio, i due difendono con ostinazione i loro ideali dai tentativi di induzione al pentimento, ma con grande amarezza alla fine dovranno costatare che al popolo romano poco importa di rivoluzioni e sovvertimento del potere. Ciò che in realtà sta a cuore ai popolani è la possibilità di poter godere della loro esecuzione, unico diversivo in una città annichilita da un potere ferocemente repressivo.
Sotto la maschera briosa della commedia, peraltro d’alta classe sollevata come è da un cast di altissima qualità, Magni confeziona una acuta e feroce analisi cui non sfugge nessuna delle parti in causa. Se immediata è la critica a una Chiesa (quella ottocentesca) che aveva come priorità non la cura delle anime ma il mantenimento di un potere materiale, non meno incisiva è la frecciata a un movimento rivoluzionario portato avanti da una borghesia colta e sicuramente illuminata, ma del tutto lontana dalle necessità di un popolo illetterato e dedito a una vita di sussistenza. Popolo che comunque non si salva, un popolo che riempe di invettive ferocemente sarcastiche il potere del papato (le famose pasquinate che nel film trovano il loro nascosto estensore nella figura di un calzolaio, in apparenza analfabeta in realtà colto ed arguto) ma che alla fine a quel potere si tiene aggrappato perché il cambiamento fa paura ed è meglio convivere con le certezze di una società retrograda ma familiare piuttosto che affrontare le incertezze di una rivoluzione peraltro sentita come qualcosa di estraneo.
Di assoluta eccellenza è la prova di Ugo Tognazzi nei viscidi panni del cardinale Rivarola, il vero protagonista è però il Pasquino di Nino Manfredi, brillante e mordace ma incapace di fare il salto verso un ruolo più attivo. La sua rivoluzione Pasquino la combatte a colpi di versi satirici, nascosto dall’anonimato di un mestiere umile e di un analfabetismo di facciata, accontentandosi di dar sfogo al suo malumore attraverso il suo estro poetico ma accettando alla resa dei conti la realtà in cui vive. Solo l’amore per l’ebrea Giuditta (Claudia Cardinale, bellissima ma questo è inutile dirlo) lo porteranno a rivelare le sue “doti” ma sarà un passaggio inutile, e l’arguto ciabattino, dopo una splendida lezione di scienza politica ante litteram al suo presunto successore (“Fatte conto che li rimandassero liberi. Che direbbe ‘sto popolo de còre? “Il padrone è buono; ti tira un po’ le orecchie quando fai il matto, si capisce… ma, all’ultimo, è come un padre che perdona!” […] Invece i morti pesano. Morti così, senza delitto, con una burla de processo, pesano più peggio, e, col tempo, diventano la cattiva coscienza del padrone...”) sarà costretto a riparare in convento.
Tra gli altri, Robert Hossein e Renaud Verley nei panni dei carbonari, Enrico Maria Salerno in quelli di un astuto colonnello della Polizia Pontificia, ma sopratutto un Alberto Sordi che pone la sua romanità al servizio del regista per dare vita a un umile frate impegnato nella conversione dei due condannati e che alla fine prenderà coscienza del fatto che andrebbero graziati. L’unico personaggio dotato di quello spirito caritatevole che dovrebbe essere alla base di una Chiesa autentica. Per questo motivo sarebbe sbagliato giudicare questo film, senza dubbio ferocemente critico verso una Chiesa quale era quella ottocentesca (e afflitta da pecche da cui purtroppo non si è ancora oggi del tutto liberata), come antireligioso. Non lo è affatto.